Il 22 ottobre 2022 segna una data che resterà scolpita nella storia d’Italia: per la prima volta, una donna, Giorgia Meloni, giura come Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana. Da quel giorno, il Paese intraprende un cammino nuovo, fondato su un’idea chiara e coraggiosa di identità nazionale, sovranità politica e libertà economica, dopo anni di instabilità e governi tecnici.
Oggi il governo Meloni è il terzo più longevo della storia della Repubblica. Con 1.094 giorni di durata dal giuramento supera la durata del governo Craxi (4 agosto 1983-primo agosto 1986). Ai primi due posti ci sono due dei quattro governi Berlusconi: il Berlusconi II ha il record di durata con 1.412 giorni in carica (11 giugno 2001-23 aprile 2005) seguito dal Berlusconi IV e ultimo con 1.287 giorni (8 maggio 2008-16 novembre 2011).
In un contesto internazionale segnato dalla guerra in Ucraina, dalle crisi energetiche e dall’inflazione, il governo Meloni nasce sotto la pressione di sfide globali immense, ma fin dall’inizio imprime un segno di solidità e coerenza, imponendosi come il più stabile della storia recente. La premier, venuta da quella destra italiana che per decenni era stata guardata con diffidenza o pregiudizio, riesce a trasformare Fratelli d’Italia in un partito di governo capace di unire fermezza ideologica e pragmatismo amministrativo.
Il suo esecutivo difende i confini, la famiglia, la libertà d’impresa e il principio della responsabilità individuale, ponendo al centro la dignità del lavoro e il valore della patria. Nei primi mesi, la Meloni si trova a dover dimostrare al mondo che un governo conservatore, sovranista e patriottico può essere anche affidabile e moderno.
La politica estera si muove su un asse di realismo atlantico e autonomia strategica: fedeltà all’Alleanza con gli Stati Uniti e alla NATO, ma anche una ferma difesa degli interessi italiani nel Mediterraneo e in Europa. Il governo si batte per una revisione delle politiche migratorie, reclamando una gestione comune a livello europeo e ponendo fine all’ipocrisia delle frontiere aperte.
Nel Mediterraneo centrale, l’Italia torna a essere protagonista, non spettatrice, riaffermando il diritto a governare i propri flussi e a difendere la propria sovranità. Sul fronte economico, nonostante le difficoltà ereditate e la stretta imposta dal rialzo dei tassi, l’esecutivo consolida la crescita e mantiene saldo il bilancio pubblico, sostenendo le famiglie e le imprese con misure mirate.
La Meloni rivendica una visione economica che non confonde la libertà con l’anarchia del mercato, ma la coniuga con la giustizia sociale e la tutela della produzione nazionale. L’idea di “Italia che produce” diventa una bandiera culturale e politica, in opposizione alla dipendenza estera e alla logica assistenzialista che aveva frenato per anni lo sviluppo.
Sul piano istituzionale, la premier rilancia il dibattito sulle riforme strutturali, in particolare il presidenzialismo e l’autonomia differenziata, con l’obiettivo dichiarato di rendere l’Italia più governabile e più efficiente. Non meno significativo è il recupero del senso della famiglia e della natalità come priorità nazionale: il governo Meloni promuove politiche a sostegno delle madri lavoratrici, della genitorialità e del diritto alla vita, opponendosi con fermezza all’ideologia gender e alla cultura della cancellazione che minacciano le radici cristiane e umanistiche della civiltà europea.
In un’epoca di conformismo mediatico e omologazione culturale, Giorgia Meloni si distingue per la sua capacità di resistere agli attacchi, mantenendo una coerenza che in politica è divenuta rara. La sua figura, inizialmente oggetto di scetticismo internazionale, viene progressivamente riconosciuta come simbolo di stabilità e di autorevolezza: la stampa straniera, che nel 2022 la descriveva come un rischio per la democrazia, qualche anno dopo la presenta come una leader determinata, europeista ma non succube, conservatrice ma capace di dialogo.
L’Italia torna ad avere un peso nei tavoli che contano, dalle trattative europee sulla migrazione e sull’energia, fino alle discussioni sulle regole fiscali e sulla competitività. Il governo Meloni diventa, con il passare del tempo, il più longevo della Terza Repubblica, segno di un consenso solido e di una leadership riconosciuta anche dagli alleati.
Nella società, si registra un lento ma profondo cambiamento di mentalità: il patriottismo, la difesa della tradizione, il rispetto dell’autorità e il valore della meritocrazia tornano a essere parole positive, non tabù. In un’Europa spesso prigioniera dell’ideologia tecnocratica, l’Italia di Giorgia Meloni incarna la possibilità di un conservatorismo moderno, radicato nei valori e aperto alla sfida della modernità. Quando, dopo più di mille giorni di governo, si tracciano i bilanci di quella stagione, appare chiaro che non si tratta solo di numeri o di riforme, ma di una svolta culturale: un’Italia che ha ritrovato orgoglio, identità e direzione. E che, per la prima volta dopo molti anni, ha sentito che la politica non era un affare di palazzo, ma una questione di destino nazionale.
Ci si potrebbe, allora chiedere, il governo di Giorgia Meloni è tutto rose e fiori?
Dal punto di vista di chi si attendeva una restaurazione dei valori naturali, cristiani e identitari dell’Italia, il bilancio appare più sfumato e, in alcuni ambiti, decisamente amaro. Meloni, che si era presentata come la leader capace di difendere le radici cristiane dell’Europa e di riportare la politica a una dimensione etica e spirituale, ha spesso scelto la via della prudenza, quando non del compromesso, dinanzi alle grandi battaglie antropologiche e culturali.
Non ha toccato i temi cruciali della bioetica: non ha promosso una revisione delle leggi che minano la sacralità della vita, come la 194 sull’aborto, limitandosi a invocare un generico “sostegno alla maternità” senza toccare la radice del problema. In nome del realismo politico, ha rinunciato a un confronto aperto con la cultura dominante, che continua a diffondere l’ideologia gender nelle scuole, a confondere le identità sessuali e a ridicolizzare il ruolo naturale della famiglia.
La promessa di difendere l’educazione dei figli dal condizionamento ideologico si è scontrata con la timidezza di un governo che non ha osato riformare i programmi scolastici, né restituire alla scuola un’anima nazionale e morale. Anche sul piano dei valori pubblici, il governo non ha avuto il coraggio di marcare una discontinuità culturale: la laicità dello Stato è rimasta intesa nel senso secolarista, mentre il cristianesimo continua a essere trattato come una dimensione privata, non come fondamento della civiltà italiana.
Le battaglie simboliche – come la difesa del presepe, della croce nei luoghi pubblici o del ruolo storico della Chiesa cattolica – sono state lasciate ai margini, come se appartenessero più al folklore che alla sostanza della nazione.
Dal punto di vista economico, le riforme promesse in nome del popolo e delle imprese si sono spesso ridotte a interventi parziali, senza quella svolta di vera sovranità economica che molti si aspettavano: l’Italia resta vincolata ai meccanismi e ai vincoli di Bruxelles, e la promessa di un’Europa dei popoli è rimasta più slogan che progetto politico.
La Meloni ha scelto la via della continuità con le politiche europee, sacrificando la possibilità di una politica monetaria e industriale autenticamente nazionale. Anche la battaglia per la difesa della sovranità è apparsa attenuata: sul piano internazionale, il governo ha confermato la piena adesione alle linee atlantiche e globaliste, senza proporre una visione alternativa di Europa cristiana e radicata nelle identità. Persino sul tema della natalità, tanto evocato nei discorsi, le misure adottate non hanno prodotto quella rivoluzione demografica attesa, perché non si è agito sulle cause culturali e morali della denatalità, ma solo con incentivi economici.
La politica migratoria, pur segnata da una retorica più ferma, non ha invertito in modo sostanziale il fenomeno dell’immigrazione incontrollata: gli sbarchi sono proseguiti, l’Europa non ha realmente condiviso il peso e l’Italia è rimasta in una posizione di difesa, incapace di tradurre la sovranità proclamata in controllo effettivo dei confini.
Il mondo tradizionale, che vedeva in Giorgia Meloni la speranza di una rinascita morale e culturale, ha dovuto constatare che l’orizzonte resta quello del liberalismo moderno, non della restaurazione dei principi perenni: lo Stato non si è riconciliato con la legge naturale, la politica non ha ritrovato la sua dimensione trascendente. La Premier ha dimostrato coraggio e disciplina, ma ha scelto di essere leader di governo più che guida spirituale di un popolo.
La sua Italia è più ordinata, più rispettata, ma non più cristiana né più radicata nei valori eterni della Tradizione. La speranza di un nuovo inizio morale si è trasformata in un lungo esercizio di equilibrio tra la fedeltà ai principi e la logica del potere, e in questa tensione la fiamma ideale che aveva acceso milioni di italiani si è fatta più fioca.
Così, il governo Meloni resterà nella storia come un periodo di stabilità e di orgoglio nazionale, ma non come la restaurazione dell’anima tradizionale che molti avevano atteso con fede e con ardore.
