Il ritiro improvviso di Ariarne “Arnie” Titmus scuote il mondo del nuoto come un’onda potente che torna indietro con forza, e lascia in chi lo osserva una sensazione di stupore, rimpianto e al contempo rispetto per una scelta che ha il sapore della sincerità più difficile da esprimere.
Pochi atleti nei loro anni migliori decidono di appendere il costume quando sono ancora nel pieno della carriera; ancora meno scelgono di farlo con la consapevolezza che la ritirata non è una pausa strategica ma un atto definitivo. Eppure è proprio questa radicalità che rende la decisione di Titmus al tempo stesso sorprendente e, in un certo senso, elegante.
Giovane, determinata, dominatrice nelle acque: armi che le hanno permesso di conquistare non uno, ma due ori olimpici nei 400 stile libero — a Tokyo e a Parigi — e di stabilire record del mondo nei 200. Eppure la straordinaria traiettoria di successi non è bastata a garantire il diritto a una carriera infinita. Nel suo annuncio ha parlato di “alcune cose della mia vita … che ora sono un po’ più importanti del nuoto” — parole che tradiscono una maturazione interiore, la coscienza che dietro la fretta degli allenamenti, le gare, le aspettative, vi sono sacrifici che a un certo punto reclamano un bilancio personale.
Quando un campione decide di ritirarsi a 25 anni — nel mezzo di record, medaglie e progetti futuri — non è semplicemente un atto sportivo, è un gesto esistenziale. È la rivelazione che anche chi ha costruito la propria identità intorno allo sport può avvertire che quell’identità non basta più, o anzi che esistono altre parti di sé che reclamano spazio e centralità.
Nel caso di Titmus, l’intervento per rimuovere tumori benigni alle ovaie (sottoposta prima delle Olimpiadi di Parigi) ha rappresentato una cesura nella quale anche il corpo ha parlato, imponendo una pausa dalla magia del cronometro e sollecitando quella riflessione che, come spesso accade, arriva solo quando il fragore delle gare si placa.
Questa decisione è anche un monito per chi assiste allo sport da fuori: non dimentichiamo che dietro le medaglie ci sono vite. Titmus non rinuncia ai sogni, ma forse riscopre che alcuni sogni — quelli della relazione, del tempo con le persone care, dell’identità fuori dalla piscina — meritano di essere trattati come protagonisti, non come corollario.
Lei lo dice con chiarezza: “nuovi obiettivi, più tempo con le persone che ami, la possibilità di mettere al primo posto te stessa” — parole che sanno di liberazione e di sconfitta insieme.
In Australia, il tributo è unanime. Compagne e avversarie parlano di lei come “leggenda” (McKeown), “privilegio” (O’Callaghan) o con le parole di Ian Thorpe: “Hai fatto sognare tante persone”. Persino Gregorio Paltrinieri, da qui lontano, la saluta con un semplice “leggenda”. Raramente un ritiro provoca una simile ondata di riconoscimento emotivo: significa che l’atto del rischio — della messa in discussione — è stato compreso come tale, e accettato.
Certo, resta la curiosità — anche se non curiosità indiscreta — su quanto la fede o la spiritualità abbiano inciso in questo percorso. In scuole cattoliche locali in Tasmania la sua figura è stata accolta come esempio da condividere. L’idea di “guardare dentro me stessa”, di dare priorità a ciò che “ora è un po’ più importante”, suona come il respiro più autentico di chi ha vissuto l’intensità dell’agonismo e ha deciso di volgere lo sguardo altrove. È dunque possibile che la sua scelta non risponda solo all’usura fisica o mentale, ma anche a un’esigenza più profonda di spiritualità, di coerenza personale, di armonia, di equilibrio fra l’io dell’atleta e l’io umano.
Alla fine, il ritiro di Ariarne Titmus non è una resa: è un atto. È una testimonianza che anche le stelle del nuoto, che sembrano invincibili, possono guardarsi indietro e dire “basta” quando è il momento. Ed è forse il gesto più coraggioso che un atleta possa fare: non continuare finché è ovvio, ma fermarsi quando serve, e farlo con dignità, consapevolezza, “senza rimpianti”.
