Il 7 ottobre 2023 rimarrà per sempre inciso nella memoria collettiva di Israele come uno dei giorni più bui della sua storia, una data che ha riportato alla mente gli echi più cupi dell’Olocausto e la consapevolezza dolorosa che l’odio verso il popolo ebraico non è mai del tutto sopito.
All’alba di quel sabato, nel giorno di Simchat Torah, mentre famiglie israeliane celebravano la gioia della Legge e molti si godevano il riposo del sabato, le sirene hanno squarciato il silenzio: migliaia di razzi lanciati da Hamas dalla Striscia di Gaza hanno colpito il sud del Paese, preludio a un attacco senza precedenti nella sua brutalità e organizzazione.
Centinaia di terroristi, armati fino ai denti, hanno varcato il confine, penetrando nei kibbutzim, nelle città e nei villaggi israeliani. In poche ore, ciò che appariva impensabile è diventato realtà: uomini, donne, bambini e anziani sono stati trucidati nelle loro case, bruciati vivi, decapitati, rapiti. La musica e la spensieratezza del festival Nova, dove migliaia di giovani si erano riuniti per ballare e celebrare la vita, si sono trasformate in un massacro.
Oltre 1200 israeliani sono stati uccisi in un solo giorno, più di 250 sono stati presi in ostaggio e trascinati a Gaza, vivi o morenti, divenendo pedine di un ricatto disumano. Le immagini di quel giorno – i corpi straziati, le famiglie sterminate, i bambini scomparsi, le madri imploranti – hanno sconvolto Israele e il mondo intero, ma col passare delle settimane la solidarietà internazionale si è dissolta, sostituita da accuse e condanne rivolte proprio allo Stato che aveva subito il peggiore pogrom dalla Shoah.
Israele, ferito e furioso, ha reagito come ogni nazione farebbe: ha dichiarato guerra a Hamas, il gruppo jihadista che da anni governa Gaza con il terrore, che usa i civili come scudi umani, che trasforma ospedali e scuole in depositi d’armi, che predica la distruzione di Israele come obiettivo sacro.
Per gli israeliani, la guerra che è seguita non è stata una scelta, ma una necessità esistenziale: difendere la propria gente, liberare gli ostaggi, ristabilire la sicurezza dei confini. In quei giorni di lutto e mobilitazione, l’intero Paese si è unito come raramente accade: giovani riservisti sono tornati dalle università e dai lavori all’estero, madri hanno salutato i figli diretti al fronte, la società civile si è organizzata per sostenere le vittime e le famiglie degli ostaggi.
Israele ha riscoperto, nel dolore, la propria unità profonda. Ma con il passare dei mesi, mentre l’esercito israeliano combatteva tra i tunnel di Gaza e cercava di smantellare le infrastrutture terroristiche, l’opinione pubblica mondiale ha progressivamente dimenticato l’origine di tutto.
Le immagini delle distruzioni a Gaza hanno oscurato la memoria delle atrocità del 7 ottobre, e molti, accecati dall’ideologia o dalla superficialità mediatica, hanno invertito la narrazione, trasformando gli aggressori in vittime e gli aggrediti in carnefici.
Per Israele, questa distorsione è una seconda ferita, forse ancor più lacerante della prima. Perché il popolo che ha visto sei milioni dei suoi sterminati per essere ebrei si ritrova di nuovo isolato, giudicato, accusato di difendersi troppo, di esistere troppo. Eppure, il 7 ottobre non è stato solo un attacco a Israele: è stato un attacco alla civiltà, alla dignità umana, alla possibilità stessa di convivenza.
Chi ha festeggiato quel massacro non difende la libertà dei palestinesi, ma ne calpesta l’umanità, inchiodandoli a un destino di odio e fanatismo. Israele, con tutti i suoi difetti, resta l’unica democrazia del Medio Oriente, uno Stato dove convivono ebrei, arabi, cristiani, drusi, dove la legge protegge i diritti di tutti, dove le donne siedono in Parlamento e i tribunali giudicano il governo.
Hamas, al contrario, rappresenta la negazione di tutto ciò. Ricordare il 7 ottobre dal punto di vista israeliano significa allora riaffermare un principio universale: nessuna causa giustifica la barbarie, nessuna bandiera può coprire il sangue degli innocenti, nessuna propaganda può cancellare la verità. Israele non dimenticherà, e non potrà dimenticare.
Ogni nome tra i morti, ogni volto tra gli ostaggi, ogni bambino strappato alla vita è un monito per il futuro. Il 7 ottobre 2023 non è soltanto una data nella cronologia della violenza mediorientale, ma una cesura nella coscienza dell’umanità. In quel giorno, Israele ha pagato ancora una volta il prezzo della propria esistenza, ma ha anche rinnovato la propria determinazione a vivere, a difendersi, a non piegarsi mai. Perché, come ha detto più volte il popolo d’Israele nei momenti più oscuri della sua storia, “am Yisrael chai” — “il popolo d’Israele vive”.
