Il 7 ottobre 1913, in una fabbrica di Detroit, Henry Ford introdusse una delle innovazioni più decisive e controverse della modernità industriale: la catena di montaggio. Con quel gesto, apparentemente tecnico, prese forma un nuovo modo di produrre, di lavorare e perfino di pensare la società. Da allora, il fordismo sarebbe divenuto non solo un modello economico, ma una filosofia del lavoro e dell’uomo, capace di plasmare l’intero Novecento con i suoi progressi e le sue alienazioni. L’intuizione di Ford fu semplice quanto spietata: se ogni operaio si fosse specializzato in una singola fase del processo produttivo, e se i pezzi avessero viaggiato verso di lui lungo una linea meccanica, l’efficienza sarebbe cresciuta esponenzialmente. La prima catena di montaggio per l’assemblaggio della Ford Model T ridusse il tempo di costruzione di un’automobile da dodici ore e mezza a circa novanta minuti. I costi crollarono, i salari aumentarono e milioni di persone poterono, per la prima volta, permettersi un’automobile. Fu, indubbiamente, una rivoluzione. Ma come tutte le rivoluzioni industriali, portava in sé una promessa ambigua: progresso materiale da un lato, impoverimento umano dall’altro. Il fordismo elevò l’efficienza a dogma. L’uomo divenne ingranaggio, il tempo divenne tiranno, la produttività divenne misura del valore. Ogni gesto doveva essere calcolato, ripetuto, standardizzato. La creatività, la lentezza, la libertà dell’artigiano scomparvero dietro il ritmo impersonale delle macchine. Il lavoro si trasformò in movimento automatico, in frammento meccanico di un tutto che solo pochi — i dirigenti, gli ingegneri, i pianificatori — potevano vedere e controllare. Il lavoratore fordista era pagato meglio, sì, ma a caro prezzo: perdeva il senso del proprio operato, la relazione con l’oggetto del suo lavoro, e infine con sé stesso. Fu questo il paradosso che filosofi e sociologi — da Marx a Arendt, da Simone Weil a Marcuse — denunciarono con lucidità: la società dell’abbondanza nasceva dal sacrificio dell’anima operaia. Il fordismo non fu solo un sistema industriale. Divenne un modello sociale e politico.
Negli anni Trenta e Quaranta, la logica della produzione di massa si estese alla società dei consumi: se la fabbrica doveva funzionare senza interruzioni, anche il mercato doveva restare sempre in movimento. Nacque così il binomio “produzione di massa – consumo di massa”. Gli stessi operai che costruivano automobili le compravano. L’aumento dei salari non era un atto di giustizia sociale, ma una strategia per alimentare la domanda.
Il fordismo generò anche una nuova disciplina collettiva: orari, routine, standard di vita, modelli familiari. Persino il tempo libero divenne programmato e subordinato alle esigenze del sistema produttivo. L’uomo moderno, libero in apparenza, cominciò a vivere secondo i ritmi del mercato e della macchina.
Negli anni Settanta, il fordismo entrò in crisi. L’esplosione dei costi, la saturazione dei mercati, la spinta sindacale e l’esigenza di flessibilità mostrarono i limiti di un sistema troppo rigido. Nacque il post-fordismo, basato sulla delocalizzazione, sull’informatizzazione e sulla frammentazione del lavoro. Ma la sostanza non cambiò: l’uomo restava subordinato alle logiche della produttività, solo che ora le catene non erano più di acciaio, ma digitali e invisibili.
Oggi, il lavoratore flessibile, connesso 24 ore su 24, vive una forma nuova di alienazione. Non è più costretto in una fabbrica, ma incatenato al flusso continuo delle richieste, delle e-mail, delle piattaforme. Il mito dell’efficienza fordista si è trasformato nel culto della prestazione.
La catena di montaggio si è dissolta nello spazio virtuale, ma continua a scandire le nostre giornate. Il mondo contemporaneo è ancora figlio del fordismo. Le sue logiche — standardizzazione, controllo, serialità, velocità — dominano la cultura, la scuola, i social network, perfino le relazioni umane. Viviamo in un universo che misura tutto: tempo, risultati, visibilità, produttività.
La promessa di libertà tecnologica si è trasformata in una nuova forma di servitù volontaria, in cui l’uomo non è più sfruttato da un padrone visibile, ma da un algoritmo che ne dirige i comportamenti. Il fordismo, dunque, non è morto: ha semplicemente cambiato volto. Il nastro trasportatore è diventato il flusso di dati; il caporeparto è l’intelligenza artificiale che valuta le performance; la monotonia della catena si è travestita da efficienza digitale.
Se il Novecento fu il secolo della macchina, il XXI secolo dovrebbe essere quello del ritorno all’umano. Il lavoro non può essere solo mezzo di produzione, ma luogo di espressione personale, di crescita, di comunione. Occorre ricostruire un’economia che serva l’uomo, e non un uomo che serva l’economia. Solo quando il lavoro tornerà ad avere un volto, un senso e un fine trascendente, la civiltà potrà dirsi davvero liberata dalle catene — materiali o digitali — che Ford, inconsapevolmente, mise in moto quel lontano 7 ottobre 1913.

Bell’articolo. Semplice , sintetico ed incisivo