Il 20 ottobre 1999 il Parlamento italiano approvava la legge che consentiva alle donne di arruolarsi nelle Forze Armate. Quella che fu presentata come una conquista di civiltà e parità, fu in realtà l’avvio di una trasformazione profonda del senso stesso della difesa e dell’istituzione militare.
Non si trattò semplicemente di un ampliamento di diritti, ma di un mutamento antropologico e simbolico: da quel momento l’Esercito smise di essere il luogo della distinzione, dell’ordine e del sacrificio virile per divenire un terreno di sperimentazione sociale, in cui l’efficienza, la disciplina e la tradizione vennero piegate all’ideologia dell’uguaglianza assoluta.
La storia insegna che le istituzioni militari non nascono per rappresentare la società, ma per difenderla; non per rispecchiare le mode culturali, ma per preservare i fondamenti su cui essa si regge. La guerra, la difesa, la gerarchia sono realtà tragiche, non neutre, che richiedono forza fisica, durezza morale, spirito di corpo e disciplina assoluta.
L’introduzione del principio di “parità di genere” all’interno di un organismo pensato per la separazione dei ruoli e la specializzazione delle funzioni ha minato lentamente quella logica.
La presenza femminile nelle forze armate, lungi dall’essere un segno di emancipazione, è divenuta spesso un pretesto per ridefinire in chiave ideologica l’identità del soldato, trasformandolo da figura del dovere e del sacrificio in un generico operatore di pace, gestore di emergenze civili o ambasciatore di valori umanitari.
È in questo modo che la retorica della modernità ha dissolto la sostanza della difesa nazionale. Il soldato non è più simbolo di una Patria da difendere, ma di una società da rappresentare; non più custode di un ordine, ma specchio di una nuova ideologia che cancella ogni distinzione naturale o funzionale.
L’Esercito, da scuola di rigore e di appartenenza, è stato lentamente reso simile a un’amministrazione pubblica, dove il linguaggio dei valori ha ceduto a quello dei diritti e la missione del servizio alla patria si è confusa con quella dell’autorealizzazione individuale.
Non si tratta di negare le capacità delle donne, che in molti ambiti civili hanno dato prova di più competenza e coraggio, ma di riconoscere che la logica militare non può essere soggetta alle stesse regole del mercato del lavoro o dell’inclusione sociale.
La difesa richiede differenza, non omologazione; complementarità, non indistinzione. L’Italia, con quella legge del 1999, volle mostrarsi moderna, ma sacrificò sull’altare dell’immagine l’antica verità per cui la guerra e la pace sono compiti troppo gravi per essere ridotti a un esperimento di parità.
Ventisei anni dopo, si può dire che l’identità delle Forze Armate si è indebolita. L’istituzione che un tempo rappresentava il vertice dell’onore e della disciplina è divenuta spesso un campo neutro, dove ogni valore si relativizza e ogni distinzione si confonde. Forse, più che includere, bisognava custodire: custodire la natura del servizio militare, la sua sacralità laica, la sua logica di sacrificio e di obbedienza.
Il 20 ottobre 1999 segnò dunque non l’apertura di una porta, ma la chiusura di una stagione: quella in cui l’Italia sapeva ancora distinguere tra uguaglianza e identità, tra rispetto e confusione, tra il diritto di tutti e il dovere di pochi.
Inoltre, l’ingresso delle donne nelle Forze Armate, salutato nel 1999 come un progresso, ha avuto come effetto collaterale un impoverimento simbolico della femminilità. La donna, chiamata per natura e vocazione a custodire la vita, a dare forma alla delicatezza e alla sapienza affettiva, è stata progressivamente spinta a imitare modelli maschili di forza, autorità e aggressività, in nome di un’uguaglianza che confonde la dignità con la somiglianza.
L’uniforme, che nell’uomo esprime l’idea del sacrificio e della difesa, nella donna tende a cancellare la sua specificità, la sua capacità di umanizzare e di addolcire ciò che l’ordine militare, per sua natura, irrigidisce.
Così, invece di valorizzare la differenza, la società contemporanea la nega, persuasa che la libertà consista nel poter essere identici. Ma quando la femminilità rinuncia alla sua propria forma per indossare quella maschile, non conquista un nuovo spazio: lo perde.
La civiltà che non sa più riconoscere la complementarità tra l’uomo e la donna, tra la forza e la dolcezza, tra la difesa e la cura, non si emancipa: si impoverisce.
L’arruolamento femminile è divenuto così il simbolo di un fraintendimento più profondo — quello che scambia l’uguaglianza per indifferenziazione e che, nel tentativo di esaltare la donna, finisce per cancellarne la verità.
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