Il 19 ottobre 1947 la Commissione per le attività antiamericane (HUAC) del Congresso degli Stati Uniti iniziava le sue investigazioni sull’infiltrazione comunista a Hollywood. Quell’evento, spesso ricordato con un tono di condanna o di scherno, rappresentò in realtà uno dei momenti più significativi del confronto tra la libertà e la propaganda, tra la democrazia e la manipolazione ideologica.
La HUAC nacque nel contesto della Guerra Fredda, quando l’Occidente si trovava di fronte a una minaccia non solo militare ma soprattutto culturale: l’espansione capillare dell’ideologia marxista nelle università, nei mezzi di comunicazione, nei sindacati e nel mondo dell’arte.
Lungi dall’essere un semplice organo inquisitorio, quella Commissione cercò di difendere la società americana da un’infiltrazione che si presentava sotto le apparenze del progresso, della libertà e della giustizia sociale, ma che in realtà mirava a minare i fondamenti stessi della civiltà occidentale, fondata sulla libertà individuale, sulla responsabilità morale e sul primato della persona.
Hollywood era allora un potente veicolo di narrazione collettiva, un luogo dove l’immaginario di milioni di persone veniva plasmato. Penetrare in quel mondo significava orientare sottilmente il pensiero di un intero popolo, trasformare l’arte in uno strumento di educazione ideologica.
La HUAC, pur con i suoi limiti e le sue inevitabili ombre, ebbe il merito di porre una domanda fondamentale: chi controlla il racconto della società? chi decide quali idee meritano di essere rappresentate e quali devono essere ridicolizzate o cancellate? La storia successiva ha mostrato che molte delle paure di allora non erano affatto infondate.
Il comunismo, pur avendo perso la sua forza politica, ha lasciato una profonda impronta culturale nei decenni successivi, tanto da sopravvivere nelle forme del pensiero relativista, dell’ideologia egualitaria assoluta e del sospetto sistematico verso ogni autorità morale o religiosa.
In Italia, più che altrove, l’eredità del comunismo non si è dissolta ma si è trasformata: si è fatta linguaggio, abitudine mentale, riflesso culturale. Non serve più il partito o il manifesto: basta l’omogeneità ideologica di redazioni, università e palinsesti televisivi, dove la pluralità è spesso invocata ma raramente praticata.
Il conformismo oggi non veste più la camicia rossa, ma quella del giornalismo “corretto”, della cultura “illuminata”, del pensiero “moderno” che esclude con ironia o con censura tutto ciò che non si allinea al nuovo dogma progressista.
In questo contesto, il ricordo della Commissione del 1947 assume un valore simbolico. Essa rappresenta il coraggio di indagare ciò che molti preferiscono ignorare, il tentativo di portare alla luce le dinamiche di potere invisibili che orientano la cultura e la comunicazione.
Oggi, non servirebbe una commissione che perseguiti, ma una che illumini; non un tribunale politico, ma un’istanza morale e intellettuale che restituisca trasparenza al sistema informativo e culturale del Paese.
Serve un’analisi severa e libera da ipocrisie sul modo in cui le ideologie penetrano nella società attraverso la parola, l’immagine, il racconto. La vera libertà non consiste nel dire tutto, ma nel poter dire la verità senza timore di essere cancellati.
In questo senso, l’eredità della HUAC non è la caccia alle streghe, ma la difesa della coscienza. L’America di allora aveva capito che il pericolo maggiore per una democrazia non è l’invasione esterna, ma la lenta corrosione interna della sua anima. L’Italia di oggi, se vuole salvarsi dal sonno del pensiero unico, dovrebbe riscoprire quello stesso coraggio.
