La decisione del Parlamento lettone di denunciare la convenzione di Istanbul rappresenta un gesto di coraggio politico e di lucidità culturale in un’Europa che, troppo spesso, confonde la tutela dei diritti con l’imposizione di ideologie estranee alla propria storia e alla propria identità.
La Lettonia, piccolo Paese baltico ma con un’anima forte, ha scelto di non piegarsi a un documento che, pur presentandosi come strumento contro la violenza sulle donne, nasconde al suo interno un impianto concettuale ispirato all’ideologia di genere, quella che pretende di ridurre la differenza tra uomo e donna a mera costruzione sociale, negando la realtà biologica e antropologica della persona umana.
È significativo che il testo della Convenzione obblighi gli Stati firmatari a “modificare i modelli di comportamento sociali e culturali di uomini e donne” e ad introdurre nelle scuole programmi di educazione sui “ruoli socioculturali non stereotipati”.
Dietro questa formula apparentemente innocua si cela un disegno ben più profondo: quello di riplasmare la società a immagine e somiglianza di un pensiero unico, nel quale la famiglia naturale, la differenza sessuale e l’identità radicata nella verità della natura vengono dissolte nel relativismo.
La Lettonia ha compreso che non si tratta di un testo tecnico o di un semplice trattato contro la violenza domestica, ma di un cavallo di Troia culturale, che usa il linguaggio dei diritti per imporre un’antropologia artificiale. Ed è per questo che la sua decisione merita rispetto e imitazione.
Anche l’Italia dovrebbe avere il coraggio di affrontare il tema con onestà intellettuale, liberandosi da quel conformismo europeo che ci spinge a ratificare tutto ciò che porta l’etichetta di “progressista”.
Nessuno mette in dubbio la necessità di combattere la violenza contro le donne: ma non serve un documento ideologico per difendere ciò che la legge e la coscienza già riconoscono come inaccettabile. Anzi, il rischio è che proprio l’impianto culturale del Trattato finisca per indebolire la tutela reale, spostando il discorso dal piano della giustizia a quello dell’educazione forzata, dalla protezione della persona alla rieducazione della società.
L’Italia, Paese dalla lunga tradizione giuridica e cristiana, dovrebbe riscoprire il coraggio di distinguere tra il bene e la sua caricatura. Difendere la donna non significa accettare la negazione della femminilità, così come tutelare la libertà non vuol dire annullare la verità.
La convenzione di Istanbul, nella sua pretesa di ridefinire le relazioni tra i sessi, rappresenta un passo verso la dissoluzione delle radici europee, e chi lo denuncia non è un nemico dell’uguaglianza, ma un difensore della realtà.
La Lettonia ha lanciato un segnale chiaro: non tutto ciò che viene proposto dall’Europa è sinonimo di progresso. Forse è tempo che anche l’Italia, con la sua voce ancora capace di farsi ascoltare, riconosca che la vera libertà non nasce dall’obbedienza cieca a documenti sovranazionali, ma dalla fedeltà alla verità dell’uomo e della donna, alla complementarità che li fonda, e a quella famiglia che da secoli è il cuore pulsante della civiltà occidentale.
L’uscita dalla Convenzione di Istanbul non sarebbe una fuga all’indietro, ma un atto di responsabilità verso il futuro: un futuro in cui la lotta contro la violenza non venga strumentalizzata per diffondere una nuova forma di colonizzazione culturale, ma torni ad essere ciò che dovrebbe essere — difesa della vita, rispetto della dignità, riconoscimento della differenza come ricchezza e non come ostacolo.
L’Italia può e deve avere il coraggio di seguire l’esempio lettone, scegliendo di riformare le proprie leggi in modo autonomo, senza sottomettersi a ideologie che confondono libertà con autodistruzione.
