Jacinda Ardern, salita al potere il 26 ottobre 2017 come primo ministro della Nuova Zelanda, è stata accolta inizialmente come un simbolo di rinnovamento, empatia e progresso sociale. A trentasette anni, la leader laburista incarnava l’immagine di una nuova politica: giovane, moderna, apparentemente aperta al dialogo e alla solidarietà. Tuttavia, con il passare degli anni, il mito della “politica della gentilezza” che Ardern aveva eretto come marchio distintivo del suo governo si è progressivamente incrinato, rivelando un volto ben diverso da quello idealizzato dai media internazionali.
Sotto il suo mandato, la Nuova Zelanda ha conosciuto una delle più severe centralizzazioni del potere nella sua storia recente, accompagnata da una crescente limitazione delle libertà civili, da un controllo sempre più capillare della comunicazione e da una gestione emergenziale che, pur presentata come misura di tutela collettiva, ha mostrato tratti da stato distopico.
Il periodo della pandemia di COVID-19 ha rappresentato il punto di svolta più emblematico: la Nuova Zelanda, inizialmente celebrata come modello di efficienza sanitaria, è divenuta ben presto un laboratorio di controllo sociale, con chiusure totali, confinamenti prolungati, sorveglianza digitale, arresti per violazioni minime delle regole e una comunicazione governativa costruita su un linguaggio paternalista che sostituiva il dibattito democratico con la fiducia cieca nelle istituzioni.
“Noi siamo la vostra unica fonte di verità”, dichiarò Ardern in un celebre discorso, frase che molti hanno interpretato come la sintesi inquietante di un potere mediatico-politico che pretendeva di monopolizzare la realtà stessa.
Parallelamente, la sua politica ambientale e sociale, apparentemente progressista, ha introdotto una serie di normative che, dietro il velo della sostenibilità, hanno aumentato la burocrazia, limitato la libertà economica e imposto una visione ideologica uniforme, lasciando poco spazio a dissenso o pluralismo.
L’informazione, strettamente filtrata dai media di Stato o da gruppi in linea con la narrativa ufficiale, ha trasformato il Paese in un ecosistema comunicativo dove la critica è divenuta sospetta, mentre il conformismo politico e culturale è stato elevato a virtù civica.
Anche il settore digitale è stato soggetto a controlli crescenti, con campagne contro la “disinformazione” che, pur dichiarando di proteggere la verità, hanno spesso servito a zittire opinioni contrarie, soprattutto su temi sensibili come la pandemia, la politica migratoria e l’agenda climatica.
La figura di Ardern, un tempo icona del progressismo internazionale, è così divenuta il simbolo di una nuova forma di autoritarismo “morbido”, che non impone il silenzio con la forza, ma con la pressione morale e la censura sociale.
Sul piano economico, la sua amministrazione ha generato un forte incremento del costo della vita, un aumento del debito pubblico e una crescente polarizzazione tra le grandi città e le aree rurali, mentre il mito di una società egualitaria è andato in frantumi. La promessa di una leadership compassionevole si è trasformata, per molti cittadini, in un sistema in cui la sorveglianza, la correttezza ideologica e la dipendenza dallo Stato hanno sostituito la libertà e la responsabilità personale.
Quando Ardern ha lasciato l’incarico nel 2023, affermando di “non avere più energie per continuare”, il suo addio è stato salutato con emozione dai sostenitori, ma anche con un sospiro di sollievo da chi aveva visto nel suo governo un esperimento di controllo sociale travestito da utopia progressista.
La Nuova Zelanda, che un tempo rappresentava un faro di democrazia e libertà nel Pacifico, è uscita dalla sua era con ferite profonde, un popolo disilluso e un’immagine internazionale ambigua: quella di un Paese che, nel nome della sicurezza e della gentilezza, ha sperimentato le forme più sofisticate e persuasive del conformismo politico del XXI secolo.
