Il 9 ottobre 1963, alle 22:39, l’Italia fu scossa da uno degli eventi più tragici e simbolici della sua storia moderna: il disastro del Vajont. In una sola notte, un intero pezzo di montagna crollò nel bacino artificiale della diga, generando un’onda colossale che superò lo sbarramento e si abbatté sulla valle sottostante, cancellando in pochi istanti i paesi di Longarone, Pirago, Rivalta, Villanova e Faè.
In quell’inferno d’acqua e fango persero la vita 1917 persone, tra cui centinaia di bambini. Eppure la diga, costruita dalla SADE (Società Adriatica di Elettricità) e considerata un capolavoro dell’ingegneria italiana, rimase quasi intatta: fu la montagna, il Monte Toc, a cedere, non la struttura in cemento armato.
Questo dato, apparentemente tecnico, è in realtà il cuore morale e civile dell’intera vicenda, perché testimonia che la tragedia non fu dovuta a un’improvvisa fatalità naturale, ma alla cieca fiducia dell’uomo nel progresso, all’arroganza economica e alla superficialità di chi, pur avvertito, scelse di non vedere.
Il Vajont non fu una calamità naturale: fu una catastrofe annunciata, un disastro previsto e ignorato. Già negli anni Cinquanta, durante la progettazione della diga, diversi geologi avevano segnalato la fragilità del versante del Monte Toc.
La conformazione geologica dell’area, caratterizzata da strati di calcare marnoso e argilloso, rendeva il terreno instabile e soggetto a frane.
Eppure la SADE, spinta dall’urgenza di sfruttare le risorse idriche del Piave per la produzione di energia elettrica, minimizzò i rischi. Quando nel 1960 una prima frana minore si verificò nel bacino, vennero avviate indagini, ma più per motivi formali che per reale volontà di fermare l’opera.
Le autorità pubbliche, compreso il Ministero dei Lavori Pubblici, si fidarono delle rassicurazioni della società e permisero la prosecuzione dei lavori.
Il collaudo della diga, completata nel 1960 e alta 261 metri — la più alta del mondo all’epoca — fu un atto di fiducia cieca nella tecnologia, non nella prudenza.
Quando poi, nel 1963, si riprese a riempire il bacino dopo vari esperimenti di stabilità, le scosse e i movimenti del terreno si fecero sempre più preoccupanti: la popolazione locale avvertiva il monte vibrare, sentiva rumori sotterranei, vedeva crepe aprirsi nei sentieri.
Gli ingegneri sapevano, eppure continuarono a sollevare il livello dell’acqua, cercando un equilibrio impossibile tra sicurezza e rendimento economico.
Alle 22:39 del 9 ottobre, 260 milioni di metri cubi di roccia si staccarono dal Monte Toc e precipitarono nel lago artificiale a una velocità impressionante.
In meno di 45 secondi la massa d’acqua, spinta dall’impatto, superò la diga e si riversò nella valle del Piave con una forza che nessuno avrebbe potuto immaginare.
L’onda, alta più di 200 metri, distrusse ogni cosa: Longarone fu spazzata via, le case si disintegrarono, gli alberi furono sradicati, i corpi trascinati a chilometri di distanza.
In pochi minuti una comunità intera fu cancellata dalla carta geografica.
I soccorsi, arrivati all’alba, trovarono solo macerie, silenzio e un paesaggio lunare.
Ciò che colpì l’opinione pubblica, nei giorni successivi, non fu solo la vastità della distruzione, ma la consapevolezza che tutto era stato previsto.
Le lettere dei geologi, i rapporti tecnici, le denunce di amministratori locali come il sindaco di Erto e Casso, i sospetti della popolazione: tutto era stato messo da parte, archiviato, ignorato.
Lo Stato, la SADE e poi l’ENEL — che aveva da poco nazionalizzato le società elettriche — si chiusero in un muro di silenzio.
L’inchiesta giudiziaria che seguì si rivelò una lunga e amara vicenda di depistaggi, attenuazioni di responsabilità, risarcimenti insufficienti e pene lievi.
I dirigenti tecnici vennero condannati, ma a pene minime; nessun grande nome politico o industriale pagò davvero. La tragedia del Vajont divenne così un simbolo di come il profitto e la fiducia cieca nella modernità possano travolgere non solo una valle, ma un intero sistema morale.
L’Italia degli anni Sessanta, proiettata nel “miracolo economico”, mostrava qui il suo volto oscuro: quello dell’avidità industriale, del potere economico che piega la verità, della politica che chiude gli occhi pur di non fermare la macchina del progresso.
Tuttavia, il Vajont non è solo un caso giudiziario o una lezione di geologia: è una ferita civile, un monito permanente.
Ogni anno, il 9 ottobre, la memoria delle vittime non è soltanto un rito, ma una chiamata alla responsabilità collettiva.
La diga ancora oggi domina la valle, immobile e maestosa, come un monumento ambiguo: da un lato testimonianza di un’abilità tecnica straordinaria, dall’altro simbolo del limite umano, della superbia che si crede onnipotente.
Guardarla significa ricordare che la grandezza dell’uomo non sta nel dominare la natura, ma nel rispettarla.
E significa anche ricordare che dietro ogni cifra statistica — 1917 morti — ci sono volti, famiglie, bambini, sogni e vite spezzate in un istante.
Il Vajont resta, a distanza di oltre sessant’anni, un nome che non designa solo un luogo, ma una lezione eterna sulla fragilità del progresso, sulla necessità della verità e sull’obbligo morale di ascoltare chi vede i segni del disastro prima che sia troppo tardi.
