Il 20 ottobre 2011, su una strada di Sirte, il corpo martoriato di Mu’ammar Gheddafi veniva mostrato al mondo come il trofeo della nuova Libia “liberata”. In realtà, quello fu il giorno in cui la Libia cessò di esistere come Stato.
Dopo otto mesi di guerra civile, alimentata e sostenuta dalle potenze occidentali sotto l’ombrello dell’intervento NATO, l’eliminazione del colonnello non aprì la via alla democrazia, ma a un decennio di caos, tribalismo, terrorismo e migrazioni incontrollate.
La guerra del 2011 fu presentata come un intervento umanitario per proteggere i civili di Bengasi, ma si rivelò presto un’operazione di destabilizzazione geopolitica, il cui vero obiettivo era il controllo delle risorse energetiche e dell’influenza mediterranea.
La Francia, in particolare, giocò un ruolo decisivo nel precipitare gli eventi: fu Parigi, allora guidata da Nicolas Sarkozy, a spingere per i bombardamenti contro le forze governative libiche, con la promessa di un rapido cambio di regime che avrebbe portato stabilità e nuove opportunità economiche.
Ma dietro la retorica dei diritti umani si nascondevano interessi ben più materiali: il petrolio libico, tra i più pregiati e accessibili del continente africano, e il ruolo finanziario che Tripoli stava assumendo nel continente grazie ai suoi fondi sovrani e ai progetti di unione monetaria africana che avrebbero ridotto la dipendenza dal franco CFA, la moneta coloniale francese.
Eliminare Gheddafi significava distruggere un interlocutore scomodo, che pur autocratico, manteneva un equilibrio tra le tribù, garantiva il controllo dei flussi migratori e teneva a distanza l’islamismo radicale. Con la sua caduta, la Libia divenne un mosaico di milizie, una terra di nessuno attraversata da trafficanti, jihadisti e mercenari, dove ogni fazione si proclamava governo e ogni potenza straniera cercava di occupare un frammento di potere.
L’Europa, che aveva applaudito l’intervento in nome della libertà, ne paga oggi il prezzo in termini di instabilità cronica, ondate migratorie e perdita di influenza nel Mediterraneo. L’Italia, che per decenni aveva coltivato rapporti pragmatici con Tripoli, fu messa ai margini di una partita decisa altrove, sacrificando i propri interessi energetici e strategici sull’altare della “nuova Libia democratica” che non nacque mai.
La Francia, che aveva promesso ricostruzione e cooperazione, abbandonò il Paese al suo destino una volta ottenuto il risultato politico immediato, lasciando dietro di sé solo macerie e rancore. A distanza di anni, la verità è che l’intervento del 2011 non liberò la Libia: la disintegrò. Da Stato sovrano e ricco, divenne una polveriera in mano a potenze regionali, un corridoio per il traffico di esseri umani e armi, una ferita aperta nel cuore del Nord Africa.
Il mondo che applaudì la caduta di Gheddafi come un simbolo di progresso non volle vedere che la Libia, con tutti i suoi limiti, era anche un argine contro il caos e il fanatismo. Il 20 ottobre 2011 fu dunque il giorno in cui il cinismo geopolitico travestito da moralità impose la sua legge, e l’Occidente, credendo di esportare la libertà, esportò solo il disordine.
Oggi la Francia e l’Europa dovrebbero guardare a quella data non come a una vittoria, ma come a un monito: la distruzione di uno Stato non è mai l’inizio della democrazia, ma l’inizio del vuoto.
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