Il 23 ottobre 1956, a Budapest, migliaia di giovani, operai, studenti e intellettuali scesero in piazza chiedendo libertà, democrazia, indipendenza nazionale. Fu l’inizio della Rivoluzione ungherese, uno dei momenti più luminosi e tragici del Novecento.
In quelle ore, l’Europa si trovò dinanzi a un bivio morale: da una parte, il coraggio di un popolo che voleva liberarsi dalla tirannide sovietica; dall’altra, il silenzio o, peggio, la complicità di chi in Occidente preferì voltarsi dall’altra parte per non mettere in discussione l’illusione comunista.
I carri armati dell’Armata Rossa, il 4 novembre, cancellarono nel sangue il sogno di una nazione libera: migliaia di civili uccisi, decine di migliaia di arresti, centinaia di condanne a morte, un popolo intero riportato sotto il giogo di Mosca.
Eppure, per settimane, l’Ungheria aveva mostrato al mondo che la libertà non è un dono del potere, ma una conquista del cuore umano, e che nessun regime può durare all’infinito contro la dignità di chi resiste. Ciò che colpisce ancora oggi non è solo la brutalità dell’invasione sovietica, ma anche l’atteggiamento vergognoso di una parte consistente dell’intellettualità e della politica italiana, che allora si schierò – più o meno apertamente – dalla parte dei carnefici.
Il Partito Comunista Italiano, legato da vincoli ideologici e strategici a Mosca, giustificò l’intervento armato, parlando di “necessità di ordine”, di “difesa del socialismo”, di “lotta contro il fascismo reazionario”. Parole infami, che tentarono di coprire il rumore dei cingoli sovietici e le grida dei giovani trucidati nelle strade di Budapest.
È una delle pagine più nere della nostra storia politica: in un Paese libero, una parte significativa della classe dirigente e della cultura preferì negare la realtà pur di non ammettere che il comunismo, nella sua essenza, era incompatibile con la libertà. Quell’appoggio morale e retorico all’invasione, quell’indifferenza colpevole di chi si rifugiava nell’ideologia, rappresentano una macchia che nessuna successiva autocritica può cancellare del tutto.
Mentre l’Europa libera piangeva i morti ungheresi, molti giornali e circoli italiani li definivano “controrivoluzionari”, “agenti imperialisti”, “provocatori al soldo dell’Occidente”. Ma non c’era alcun imperialismo dietro quella rivolta: c’era solo un popolo che voleva respirare. La verità è che la Rivoluzione ungherese del 1956 fu una condanna definitiva del mito comunista, la prova vivente che il “paradiso dei lavoratori” si reggeva solo sulla violenza e sul terrore.
Da allora, nessuno che avesse un minimo di onestà intellettuale avrebbe potuto continuare a credere nella bontà intrinseca del sistema sovietico. Eppure, in Italia, quel mito sopravvisse ancora a lungo, sorretto da giustificazioni pseudo-morali e da un colpevole silenzio sulle vittime.
Ricordare il 23 ottobre 1956 significa rendere giustizia a chi si ribellò contro l’oppressione comunista, ma anche fare i conti con le ambiguità e le ipocrisie di casa nostra. Non si può celebrare la libertà se non si ha il coraggio di condannare chi la tradì. I giovani di Budapest non chiesero ricchezza né potere: chiesero solo verità, giustizia, dignità. Morirono per affermare ciò che oggi molti danno per scontato: che nessuna ideologia, nessun partito, nessuna “ragione storica” può legittimare la soppressione dell’uomo libero. Il comunismo, che si proclamava redentore dei popoli, mostrò allora il suo volto più autentico: quello del tiranno che teme la libertà più di ogni altra cosa.
Per questo, ricordare l’Ungheria del 1956 non è solo un dovere storico, ma un atto di coscienza civile: per dire ancora, e sempre, che la libertà non si negozia, non si promette, non si sospende – si difende, fino all’ultimo respiro.
