Pascal Donohoe (nella foto) è stato rieletto per la terza volta consecutiva alla presidenza dell’Eurogruppo, l’organismo che riunisce i ministri dell’economia e delle finanze dei Paesi dell’eurozona.
Si tratta di un fatto che, letto in superficie, potrebbe sembrare un segno di continuità e stabilità politica nel cuore delle istituzioni economiche europee.
Ma dietro questa apparente normalità si cela un’enorme contraddizione che grida allo scandalo: Donohoe è ministro delle finanze dell’Irlanda, un Paese che, nei fatti, agisce come un vero e proprio paradiso fiscale nel cuore dell’Unione Europea, al servizio degli interessi delle multinazionali statunitensi.
Da anni l’Irlanda ha costruito il proprio modello economico attirando le sedi legali e fiscali di colossi americani come Apple, Google, Meta, Amazon, Microsoft e molti altri, grazie a una tassazione tra le più basse del continente — con un’aliquota ufficiale del 12,5%, ma spesso molto inferiore grazie a deduzioni, escamotage legali e accordi riservati.
Questa strategia ha trasformato il piccolo Stato insulare in un nodo centrale dell’elusione fiscale globale, permettendo alle aziende USA di evitare il pagamento di imposte nei Paesi europei dove i loro prodotti vengono effettivamente consumati, e spostando artificialmente i profitti verso Dublino.
Ma il problema non si limita solo alla bassa imposizione fiscale. L’Irlanda, infatti, è stata accusata di falsificare sistematicamente i propri dati economici, gonfiando i numeri del PIL e del commercio estero attraverso un sistema contabile costruito su misura per le esigenze delle grandi corporation.
Enormi quantità di beni e servizi americani risultano “vendute” dall’Irlanda all’interno dell’Unione Europea, quando in realtà si tratta soltanto di operazioni fittizie: i prodotti non passano mai realmente per il territorio irlandese, ma i profitti vengono registrati lì per ragioni fiscali.
Questo meccanismo, noto da tempo a tutti gli osservatori economici, altera profondamente le statistiche ufficiali: l’Irlanda presenta tassi di crescita astronomici, un surplus commerciale immenso e una produttività pro capite completamente irreale, che non riflette la vera economia del Paese ma solo il passaggio contabile dei profitti delle multinazionali.
Di fatto, la Repubblica d’Irlanda agisce come una gigantesca piattaforma offshore all’interno dell’Eurozona, protetta dalla complicità di chi, in Europa, preferisce chiudere gli occhi per non turbare gli equilibri politici e finanziari esistenti.
Che proprio il rappresentante politico di questo sistema venga rieletto, con ampio consenso, alla guida dell’Eurogruppo, è un segnale devastante. Non solo sul piano simbolico, ma anche su quello pratico.
L’Eurogruppo, pur non essendo un organismo legislativo, ha un’enorme influenza sull’orientamento economico dell’area euro, sui vincoli di bilancio, sulle regole fiscali comuni e sulle linee guida della politica economica europea. Affidarne la presidenza a chi rappresenta un sistema che si fonda su concorrenza fiscale sleale, opacità contabile e subordinazione agli interessi extraeuropei significa delegittimare l’intero progetto di integrazione economica.
Come può l’Europa affrontare seriamente la questione dell’armonizzazione fiscale, se proprio uno dei principali ostacoli a tale armonizzazione ne guida l’organismo economico più influente? Come si può parlare di “solidarietà europea”, se si tollera che un Paese sottragga entrate fiscali agli altri, drenando risorse che dovrebbero essere impiegate nei servizi pubblici, nell’istruzione, nella sanità, nella transizione ecologica?
La rielezione di Donohoe rivela in tutta la sua drammaticità la fragilità dell’Unione Europea davanti alle logiche del potere economico globale. È il segno che, nonostante i proclami di sovranità, equità e trasparenza, le istituzioni europee restano profondamente permeabili agli interessi delle grandi lobby finanziarie e industriali, soprattutto quando questi interessi coincidono con quelli geopolitici degli Stati Uniti.
In un’epoca segnata da crescenti disuguaglianze, da tensioni sociali e da una crisi di fiducia verso le élite politiche, vedere premiato con un nuovo mandato un rappresentante di questo sistema non è solo uno scandalo tecnico, ma un tradimento della promessa europea.
Se l’Unione continua a chiudere gli occhi di fronte a queste distorsioni sistemiche, rischia di trasformarsi ulteriormente in un contenitore vuoto: un’architettura istituzionale priva di coerenza, incapace di proteggere i suoi cittadini e ostaggio delle logiche del dumping fiscale e della manipolazione contabile.
È tempo che l’opinione pubblica europea apra gli occhi: ciò che si presenta come tecnocrazia neutrale, in realtà, è l’alleanza silenziosa tra potere economico e complicità politica. E ogni rielezione come quella di Donohoe è un tassello in più nel crollo della credibilità europea.
