Il 6 ottobre 2016, António Guterres, ex primo ministro del Portogallo ed ex Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, venne eletto segretario generale dell’ONU, subentrando a Ban Ki-moon.
La sua nomina fu accolta con un misto di speranza e realismo: speranza per la reputazione di uomo pragmatico e sensibile alle questioni umanitarie, ma anche realismo, perché chiunque guidi l’ONU si trova inevitabilmente imbrigliato in un meccanismo complesso, burocratico e profondamente dipendente dagli equilibri geopolitici tra le grandi potenze.
A quasi un decennio di distanza, il bilancio della gestione Guterres appare tutt’altro che esaltante.
Pur tra dichiarazioni solenni, appelli alla pace e promesse di riforma, l’ONU si è mostrata sempre più impotente di fronte ai grandi drammi del nostro tempo: dalle guerre in Siria e Yemen, alla crisi ucraina, fino al conflitto israelo-palestinese e al disastro umanitario in Africa.
Guterres, pur dotato di eloquenza diplomatica e di sensibilità personale, ha spesso assunto il ruolo di spettatore più che di attore, limitandosi a esprimere “profonda preoccupazione” e “condanna” in situazioni che avrebbero richiesto coraggio politico e capacità di pressione effettiva.
Le Nazioni Unite, nate per “salvare le future generazioni dal flagello della guerra”, sono oggi paralizzate dal veto dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, che impedisce qualsiasi azione concreta nei conflitti dove gli interessi delle grandi potenze si contrappongono.
Il segretario generale, qualunque sia la sua buona volontà, resta così prigioniero di una struttura che premia l’inerzia e punisce l’audacia.
La burocrazia interna, gonfiata e autoreferenziale, consuma risorse enormi senza risultati tangibili, mentre i Paesi più poveri rimangono ostaggio di risoluzioni mai applicate e di promesse di aiuto che si dissolvono tra i corridoi di New York.
In materia di diritti umani, l’ONU ha mostrato una crescente ambiguità, spesso piegandosi alle pressioni di regimi autoritari che siedono paradossalmente nei suoi stessi organi di controllo, trasformando la retorica dei “valori universali” in un fragile involucro diplomatico.
Anche la risposta all’inquinamento, che avrebbe potuto essere il terreno su cui Guterres lasciava un segno storico, si è ridotta a conferenze affollate e a dichiarazioni d’intenti prive di strumenti vincolanti.
La sua leadership, più morale che operativa, ha fallito nel ricostruire la credibilità di un’istituzione che appare sempre più stanca, incapace di prevenire le guerre, di garantire la giustizia internazionale o di difendere i popoli oppressi.
L’ONU, sotto la guida di Guterres, ha confermato la sua crisi di identità: un’organizzazione nata per un mondo che non esiste più, paralizzata dai giochi di potere e incapace di incarnare davvero quella comunità internazionale che proclama di rappresentare.
