In un’epoca in cui la morte è spesso mascherata da progresso e il male viene travestito da diritto, il dato che più di 25 milioni di aborti siano stati praticati nei primi sei mesi dell’anno in corso dovrebbe scuotere le coscienze con la forza di un terremoto morale. E invece, nel silenzio complice dei media, nel torpore anestetizzante dell’opinione pubblica e nella colpevole connivenza di intere classi dirigenti, questa strage quotidiana continua con regolarità matematica, quasi fosse una banale statistica amministrativa.
Duecentomila bambini non nati vengono soppressi ogni giorno, molti con il beneplacito delle stesse istituzioni che avrebbero il dovere di proteggere la vita.
Governi, parlamenti, organismi sovranazionali, medici, professionisti della salute, persino i genitori — coloro che dovrebbero custodire con amore e tremore la vita che sboccia — si trasformano in artefici o complici di un crimine che grida vendetta al Cielo.
Secondo i dati di Worldometer, l’aborto è oggi la prima causa di morte nel mondo, superiore non solo alle malattie cardiovascolari, ma a tutte le altre cause di morte postnatale sommate insieme.
Il nostro tempo ha eretto una cultura globale della morte, dove la soppressione sistematica dell’essere umano più indifeso è non solo tollerata, ma giustificata, protetta e persino celebrata come conquista di civiltà.
Le cifre sono talmente spaventose da superare la capacità del nostro intelletto di comprenderle appieno: non si tratta più di numeri, ma di una voragine morale che ci interroga come società e come individui.
Come disse tragicamente Stalin, una morte è una tragedia, un milione è una statistica: eppure ogni cifra nasconde un volto, un cuore che non batterà, una storia che non sarà mai raccontata.
In nome di una falsa libertà si sacrifica la giustizia, in nome dell’autodeterminazione si elimina l’altro, in nome del diritto si uccide la vita.
La nostra civiltà, che si vanta dei suoi traguardi scientifici e delle sue conquiste tecnologiche, ha edificato il proprio benessere sul sangue degli innocenti, su milioni di piccoli martiri che non avranno mai voce nei parlamenti, nelle piazze o nei tribunali.
E quando sentiamo politici, opinionisti e leader di pensiero affermare che ci sono “problemi più importanti”, come la crisi economica o l’ambiente, sarebbe opportuno ricordare che nessuna economia, nessuna riforma sociale, nessuna politica pubblica può essere considerata davvero umana se non pone al centro la tutela della vita umana sin dal concepimento.
Non si può costruire una casa solida se le fondamenta sono avvelenate; non si può invocare la pace, la giustizia, la libertà, mentre si perpetua il massacro silenzioso dei più piccoli.
L’aborto non è un evento neutro né un diritto da rivendicare: è una ferita aperta nella carne del mondo, una negazione radicale del bene, un crimine legalizzato che ci priva della nostra stessa umanità.
L’urgenza non è quella di tacere o relativizzare, ma di gridare, di risvegliare le coscienze, di rieducare i cuori, di opporsi con tutte le forze a questa deriva di morte. Perché il primo vero diritto umano è quello alla vita. Tutto il resto viene dopo. E tutto il resto crolla, se quel diritto non è più riconosciuto.
