Il 4 novembre 1995 segna una delle date più dolorose della storia contemporanea d’Israele: l’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin, colpito a morte da un estremista di destra al termine di una manifestazione per la pace.
L’evento, che sconvolse non solo la nazione ma l’intera opinione pubblica mondiale, rivelò quanto profonde fossero – e restino ancora oggi – le fratture ideologiche e religiose all’interno della società israeliana.
Rabin, simbolo del pragmatismo politico e del tentativo di conciliare sicurezza e dialogo, pagò con la vita il coraggio di tendere la mano al nemico, di cercare un compromesso storico con i palestinesi attraverso gli Accordi di Oslo.
L’assassino, espressione della destra religiosa radicale, agì in nome di una visione teocratica e nazionalista della terra d’Israele, nella quale ogni concessione territoriale era considerata una profanazione della promessa divina.
Ma sarebbe ingiusto e fuorviante ridurre la destra religiosa a quell’atto estremo: essa rappresenta un insieme complesso di correnti, alcune animate da sincera preoccupazione per la sicurezza e l’identità del Paese, altre da un profondo senso di appartenenza spirituale e biblica.
Oggi, trent’anni dopo, quella componente politica continua a esercitare un’influenza decisiva sulla vita pubblica israeliana, partecipando attivamente ai governi e orientando il dibattito su temi chiave come la sovranità, la sicurezza e la relazione fra Stato e religione.
La memoria dell’assassinio di Rabin resta dunque un monito permanente: quando la politica diventa religione e la fede si trasforma in strumento di potere, il dialogo si spezza e la democrazia stessa si espone alla violenza.
Eppure, nel ricordo di quella notte di novembre, Israele continua a interrogarsi sul difficile equilibrio tra identità e pluralismo, tra la promessa biblica e la realtà storica, tra la forza della tradizione e la necessità della pace.
