Il 9 ottobre 1982 resta una ferita aperta nella coscienza civile e morale dell’Italia. Quel giorno, davanti alla Sinagoga di Roma, esplose la violenza cieca dell’odio antisemita, travestito da fanatismo politico e religioso, lasciando a terra il corpo senza vita di un bambino di due anni, Stefano Gaj Taché, e provocando trentacinque feriti gravi.
Era un sabato mattina, giorno sacro per gli ebrei, e le famiglie si erano riunite per la preghiera. In un istante, l’aria si riempì del fumo delle granate e del pianto disperato di madri e padri. L’attacco, compiuto da terroristi palestinesi del gruppo Fatah-Consiglio Rivoluzionario, segnò non solo un atto di barbarie contro la comunità ebraica, ma anche un attentato al cuore stesso della nostra democrazia, alla memoria dell’Olocausto e al principio di libertà religiosa che dovrebbe essere inviolabile in ogni società civile.
Quell’episodio, tuttavia, non fu un fulmine a ciel sereno. Fu il frutto avvelenato di anni in cui l’odio verso Israele si era lentamente trasformato in ostilità verso gli ebrei tout court, in un clima internazionale attraversato da ideologie estremiste, connivenze politiche e silenzi imbarazzati. Roma, città che da duemila anni ospita una delle più antiche comunità ebraiche della diaspora, divenne teatro di un massacro che avrebbe dovuto scuotere la coscienza nazionale.
Eppure, la reazione dello Stato italiano fu segnata da ambiguità, da omissioni e da quella retorica del “non schierarsi” che, in nome di un malinteso equilibrio mediorientale, finì per offendere le vittime e indebolire la verità. È emerso negli anni che i servizi segreti avevano ricevuto avvertimenti concreti su possibili attentati contro obiettivi ebraici, ma le misure di sicurezza furono inspiegabilmente ridotte.
Questo non fu solo un errore, ma una colpa morale. Il sangue di un bambino innocente avrebbe dovuto risvegliare un Paese intero, richiamarlo al dovere della memoria, all’obbligo della giustizia, alla necessità di distinguere sempre tra la causa politica e l’odio razziale. Invece, per troppo tempo si preferì tacere, archiviare, dimenticare. Solo molti anni dopo, quando le generazioni successive hanno potuto guardare a quegli eventi senza le paure della Guerra Fredda e dei compromessi diplomatici, si è iniziato a riconoscere apertamente la responsabilità di quella rimozione collettiva.
Il nome di Stefano Gaj Taché è diventato così il simbolo di un’infanzia spezzata, della violenza che non dovrebbe mai più ripetersi, della necessità di vigilare contro ogni ritorno dell’antisemitismo, oggi di nuovo mascherato da slogan politici, da estremismi religiosi, da pseudoculture del rancore.
Ricordare il 9 ottobre 1982 significa rifiutare ogni giustificazione all’odio, significa affermare che la sicurezza delle minoranze è la misura della civiltà di una nazione, significa riconoscere che la libertà di pregare senza paura è un diritto universale, e che quando un bambino muore per il solo fatto di essere ebreo, muore un frammento dell’umanità intera. Nessuna ragione geopolitica, nessuna ideologia, nessun silenzio può più coprire quella vergogna. Roma, la città delle pietre e della memoria, deve custodire per sempre il nome di Stefano come un monito, come una preghiera laica: mai più.
