Le recenti dichiarazioni provenienti da Mosca, secondo cui Russia, Stati Uniti e Ucraina sarebbero “abbastanza vicini a una soluzione diplomatica”, aprono uno spiraglio inatteso nel lungo e complesso conflitto che da anni destabilizza l’Europa orientale e i rapporti internazionali.
Le parole di Dmitriev, inviato speciale del Cremlino per gli investimenti esteri e capo del fondo sovrano russo, giunto negli Stati Uniti in un momento di tensione acuta, hanno il sapore di un messaggio calibrato tanto per Washington quanto per l’opinione pubblica globale.
L’amministrazione americana, che solo di recente aveva annunciato nuove sanzioni contro Mosca, si trova di fronte a un bivio: proseguire sulla strada della pressione economica e diplomatica oppure tentare una de-escalation attraverso un negoziato che tenga conto delle “preoccupazioni di sicurezza” invocate dalla Russia.
Dmitriev ha ribadito che Putin non agirà mai sotto pressione, e ciò rappresenta un monito chiaro alla Casa Bianca, un invito a cambiare tono e metodo, a passare dalla logica della forza a quella del compromesso. In questo contesto, la figura di Donald Trump torna curiosamente al centro della scena internazionale, mentre è in viaggio verso l’Asia per una serie di incontri dal significato potenzialmente decisivo.
Il suo possibile faccia a faccia con Xi Jinping, in Corea del Sud o in un’altra tappa del tour, resta avvolto nell’incertezza, ma la sola ipotesi di un confronto diretto tra due delle maggiori potenze mondiali riaccende l’attenzione su un’area, quella del Pacifico, in cui la tensione con la Corea del Nord continua a rappresentare una minaccia costante all’equilibrio globale.
L’ex presidente americano ha lasciato intendere di non escludere nemmeno un incontro con Kim Jong-un, rievocando i giorni, ormai lontani, del vertice di Singapore e del tentativo — fallito ma simbolico — di aprire un canale di dialogo con Pyongyang.
Queste due vicende, apparentemente distinte, si intrecciano invece sul piano più profondo della politica internazionale, dove la diplomazia, la forza economica e la leadership personale tornano a essere strumenti decisivi per ridisegnare gli equilibri geopolitici.
L’idea che si possa arrivare a una soluzione diplomatica tra Russia, Stati Uniti e Ucraina segnalerebbe una svolta epocale, ma allo stesso tempo richiama l’esigenza di un nuovo equilibrio mondiale in cui la comunicazione tra le grandi potenze non si riduca a un gioco di sanzioni e minacce.
Trump, con il suo stile irregolare e imprevedibile, sembra voler riaffermare la centralità del dialogo personale, quasi a contrapporsi al formalismo di Washington, e il suo viaggio in Asia, pur circondato da ambiguità, assume un valore politico che va oltre la semplice agenda di incontri.
In un mondo sempre più frammentato e polarizzato, il ritorno della diplomazia come strumento di potenza — che sia attraverso i negoziati sulla sicurezza europea o i colloqui sul nucleare nordcoreano — potrebbe rappresentare l’unica via per evitare nuove fratture globali.
Ma perché ciò accada, sarà necessario che gli Stati Uniti, la Russia e la Cina riconoscano reciprocamente la legittimità delle proprie sfere di influenza e degli interessi strategici, abbandonando la logica della punizione e del sospetto.
Solo allora le parole di Dmitriev potranno trasformarsi da mera dichiarazione d’intenti in un reale punto di svolta, e i viaggi di Trump da episodi mediatici in tasselli di una più ampia costruzione politica capace di restituire al mondo un equilibrio che oggi appare fragile come non mai.

Ottima analisi. Il predominio anglosassone va vinto. È massonico. Anche negli Usa si devono ribellare. La Russia invece è la terza Roma .