Il 7 ottobre 1985 resterà impresso nella memoria collettiva come una delle pagine più oscure del terrorismo internazionale. Quel giorno, la nave da crociera Achille Lauro, battente bandiera italiana, venne dirottata nel Mar Mediterraneo da un commando di terroristi palestinesi appartenenti al Fronte per la Liberazione della Palestina (FLP). L’episodio, che culminò nell’assassinio a sangue freddo di Leon Klinghoffer, un passeggero statunitense disabile, fu non solo un atto criminale, ma anche un sacrilegio morale contro ogni principio di umanità e di civiltà.
La Achille Lauro era una nave simbolo della navigazione civile italiana, luogo di incontro fra popoli e culture, microcosmo di un’umanità pacifica che solcava i mari in nome del turismo e della bellezza. Quando i terroristi si impadronirono della nave, la crociera divenne improvvisamente un teatro di paura e di violenza. Uomini armati imposero il loro dominio con minacce, urla e intimidazioni, prendendo in ostaggio oltre quattrocento persone innocenti.
Gli aggressori non cercavano giustizia, ma terrore. Non cercavano pace, ma propaganda. Il gesto di colpire civili indifesi — uomini, donne e bambini — svela la logica disumana del terrorismo: quella di annullare la dignità dell’altro in nome di un’ideologia cieca e sanguinaria.
Il nome di Leon Klinghoffer è divenuto, da quel giorno, un simbolo universale dell’innocenza calpestata. Uomo anziano, costretto su una sedia a rotelle, fu ucciso freddamente e gettato in mare solo perché era ebreo e americano. In quel gesto si concentrano la viltà, l’odio e il fanatismo che hanno alimentato tanti atti terroristici del Novecento.
Non vi è “causa” politica o nazionale che possa giustificare un simile crimine. Ogni tentativo di relativizzare o “contestualizzare” quell’assassinio rappresenta un insulto alla memoria delle vittime e una resa morale al terrorismo.
L’azione dell’FLP sull’Achille Lauro non servì la causa del popolo palestinese; la disonorò. Chi afferma di voler difendere la libertà e la dignità del proprio popolo non può tradirle con atti di barbarie.
Il terrorismo non libera, ma incatena. Non costruisce, ma distrugge. Non suscita solidarietà, ma ripugnanza. In quella drammatica vicenda, il movimento palestinese si mostrò diviso fra chi cercava un dialogo politico e chi, invece, preferiva la via del terrore, ponendo così un ostacolo alla pace e alimentando la diffidenza internazionale verso la legittima aspirazione di autodeterminazione dei palestinesi.
L’Italia, colta da uno dei momenti più difficili della propria storia recente, reagì con dignità e fermezza. Il governo italiano, attraverso un complesso negoziato, ottenne la liberazione degli ostaggi, ma la successiva fuga dei dirottatori — e le tensioni con gli Stati Uniti — mostrarono quanto fosse arduo combattere il terrorismo in un mondo ancora diviso dalla Guerra Fredda.
L’opinione pubblica mondiale, tuttavia, comprese chiaramente la natura dell’evento: l’Achille Lauro non fu un episodio di guerra, ma un crimine contro l’umanità.
A quarant’anni di distanza, il dirottamento dell’Achille Lauro rimane un monito per tutte le generazioni. Esso ci ricorda che la violenza ideologica, quando si scaglia contro innocenti, non è mai un atto politico ma un sacrilegio morale.
Ogni forma di terrorismo — che si ammanti di religione, di ideologia o di nazionalismo — rappresenta la negazione stessa della giustizia e della pace.
L’odio, la sopraffazione e l’assassinio non potranno mai redimere un popolo né costruire un futuro. Solo il rispetto della vita umana, la ricerca sincera della verità e la giustizia fondata sulla legge possono garantire la pace tra i popoli.
Il 7 ottobre 1985, la tragedia dell’Achille Lauro colpì non solo l’Italia, ma l’intera umanità.
Condannare quell’atto terroristico non significa ignorare la complessità del conflitto mediorientale, ma riaffermare un principio universale: nessuna causa, per quanto nobile, può giustificare il sangue innocente versato.
In memoria di Leon Klinghoffer e di tutte le vittime del terrorismo, la storia deve continuare a parlare, perché dimenticare significherebbe consentire che la barbarie si ripeta.
