L’11 ottobre 1939 segna una data cruciale nella storia dell’umanità: in quel giorno, il presidente degli Stati Uniti Franklin D. Roosevelt ricevette una lettera destinata a cambiare il corso della guerra e del mondo intero.
Era firmata da Albert Einstein, ma scritta in larga parte dal fisico ungherese Leó Szilárd, uno dei tanti scienziati europei che avevano trovato rifugio in America dopo la presa del potere di Hitler.
La missiva, passata alla storia come la “Einstein–Szilárd letter”, metteva in guardia il governo statunitense contro la possibilità che la Germania nazista stesse lavorando a un’arma di potenza inaudita: la bomba atomica.
In essa, Einstein — che pure era un pacifista convinto — spiegava come recenti scoperte nel campo della fisica nucleare, in particolare la fissione dell’atomo di uranio, potessero portare alla costruzione di bombe in grado di liberare enormi quantità di energia.
Szilárd, che già nel 1933 aveva teorizzato la reazione a catena nucleare, temeva che i fisici tedeschi, e in particolare il gruppo guidato da Otto Hahn e Werner Heisenberg, potessero giungere per primi alla costruzione di un ordigno del genere.
Einstein, consapevole del peso del proprio nome, acconsentì a firmare la lettera affinché essa avesse la forza di convincere Roosevelt della gravità della minaccia.
Il documento venne consegnato al presidente grazie all’intermediazione dell’economista Alexander Sachs, che il giorno 11 ottobre 1939 si recò alla Casa Bianca e ne spiegò il contenuto a Roosevelt.
Dopo aver ascoltato il racconto, il presidente rispose con una frase destinata a entrare negli annali: “Dobbiamo assicurarci che Hitler non ci preceda”.
Quella decisione avrebbe dato inizio, seppur in modo ancora embrionale, a quello che qualche anno più tardi sarebbe diventato il “Progetto Manhattan”, l’impresa scientifica e industriale più vasta e segreta mai intrapresa fino ad allora.
Il governo americano creò il “Comitato sull’uranio”, che nel 1940 si trasformò in un comitato di ricerca scientifica sotto la direzione di Vannevar Bush e poi, dal 1942, in un programma militare vero e proprio affidato al generale Leslie Groves e al fisico Robert Oppenheimer.
In pochi anni, migliaia di scienziati, ingegneri e tecnici lavorarono in località segrete come Los Alamos, Oak Ridge e Hanford, sviluppando la tecnologia necessaria per produrre uranio arricchito e plutonio, e infine costruire due tipi di ordigni nucleari differenti: “Little Boy”, a uranio, e “Fat Man”, a plutonio.
Il 16 luglio 1945, nel deserto di Alamogordo, nel Nuovo Messico, il primo test atomico — denominato “Trinity” — mostrò al mondo, o almeno ai suoi artefici, che l’energia dell’atomo poteva essere liberata in modo devastante. Poco meno di un mese dopo, il 6 e il 9 agosto, le città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki furono distrutte dalle due bombe, segnando la fine della Seconda guerra mondiale ma aprendo un’era di terrore nucleare e di dilemmi morali mai più sopiti.
Einstein, che dopo aver firmato la lettera non aveva partecipato in alcun modo al Progetto Manhattan, rimase sconvolto dagli esiti della scoperta e per il resto della sua vita si impegnò nella lotta contro le armi atomiche e nella promozione di un governo mondiale che potesse impedire simili catastrofi.
In più occasioni definì la sua firma del 1939 “il più grande errore della mia vita”, pur riconoscendo che, di fronte alla minaccia hitleriana, allora non vi fossero molte alternative.
Eppure, quella decisione — nata dalla paura di un possibile trionfo nazista — finì per porre le basi di un mondo dominato dall’equilibrio del terrore, in cui la distruzione atomica divenne un incubo collettivo.
Così, in un giorno d’autunno del 1939, una semplice lettera di due pagine aprì il capitolo più drammatico della storia della scienza e della politica moderna, dimostrando come il genio umano, nel suo sforzo di conoscenza, possa al tempo stesso illuminare e oscurare il destino dell’umanità.
