La notizia che Gaza City si è ormai quasi svuotata dei suoi abitanti palestinesi è una di quelle che segnano la storia di un conflitto lungo, doloroso e spesso frainteso. Circa novecentomila persone – secondo le stime dell’esercito israeliano – hanno lasciato le proprie case, spostandosi verso sud in seguito agli ordini di evacuazione e all’intensificarsi delle operazioni militari dell’IDF. È un’immagine drammatica, eppure, dal punto di vista israeliano, non priva di ragioni e di contesto.
Israele non ha scelto questa guerra. L’attacco del 7 ottobre, con i massacri, i rapimenti e le atrocità commesse da Hamas contro civili israeliani, ha infranto ogni illusione di convivenza. Da allora, lo Stato ebraico si è trovato di fronte a un compito che nessuna nazione desidererebbe: eliminare un’organizzazione terroristica radicata nel cuore di un’area densamente popolata, che da anni utilizza i civili come scudi umani e le infrastrutture civili come basi operative.
L’evacuazione di Gaza City va letta in questa luce. Per settimane, Israele ha lanciato appelli e diffuso mappe umanitarie per consentire alla popolazione civile di allontanarsi dalle zone di combattimento. Non si tratta di una deportazione, come talvolta si tende a insinuare, ma di una misura dolorosa, necessaria per salvare vite — sia israeliane che palestinesi — in un contesto in cui Hamas trasforma ospedali, scuole e moschee in centri di comando e depositi di armi.
Nessun israeliano gioisce vedendo colonne di famiglie in fuga. Il popolo ebraico, segnato dalla memoria dell’esilio e della persecuzione, conosce profondamente il dolore dello sradicamento. Ma la differenza è chiara: qui non si tratta di un’aggressione gratuita, bensì di un atto di autodifesa. Israele combatte per la propria sopravvivenza, in un’area dove la sua stessa esistenza è negata da molti dei suoi vicini e dove il terrorismo si traveste da resistenza.
Il dramma di Gaza City non può però essere ridotto a un semplice calcolo militare. Ogni bambino che fugge, ogni casa distrutta, ogni vita spezzata lascia una ferita nell’anima di entrambi i popoli. La speranza ebraica — che è sempre stata speranza di pace, di giustizia, di ritorno alla normalità — resta quella di un futuro in cui Gaza non sarà più una base di terrore, ma un luogo in cui la vita potrà rifiorire.
Perché se Israele oggi combatte, lo fa non solo per difendere i suoi cittadini, ma anche per liberare un’intera popolazione dalla tirannia di chi la usa come scudo. La pace, per gli ebrei, non è un sogno ingenuo: è una promessa antica, che richiede verità, sicurezza e la fine del terrorismo. E finché Hamas esisterà, nessuna di queste condizioni potrà essere realizzata.
Angelica La Rosa
