La gigantesca operazione di Rio de Janeiro, che ha visto impegnati oltre duemilacinquecento agenti delle forze dell’ordine in uno dei più vasti e sanguinosi blitz della storia del Brasile, rappresenta un momento decisivo nella lotta dello Stato contro la criminalità organizzata che, da decenni, tiene in ostaggio interi quartieri della città.
Le scene drammatiche e le cifre impressionanti — oltre centotrenta morti e ottantuno arresti — non devono essere lette con la lente deformante di chi, da lontano, ignora la realtà spietata delle favelas dominate dai narcos.
Il Comando Vermelho non è un semplice gruppo criminale: è un vero e proprio esercito, nato nel ventre delle prigioni brasiliane, che da quarant’anni semina terrore, corruzione e morte, imponendo il proprio dominio su territori nei quali lo Stato è stato per troppo tempo assente.
L’operazione condotta dalle forze di sicurezza non è dunque un atto di cieca violenza, ma il tentativo, tardivo e necessario, di restituire a Rio de Janeiro la sovranità della legge. Non si può chiedere alle autorità di combattere un nemico che usa armi da guerra, droni esplosivi e strategie militari con strumenti blandi o protocolli burocratici.
Ogni vita perduta è un dramma, ma sarebbe ipocrita ignorare che il primo diritto umano da difendere è quello alla sicurezza, oggi negato a milioni di cittadini onesti, prigionieri di una criminalità che impone tasse illegali, controlla il traffico di droga e armi e arruola bambini come vedette e corrieri.
I poliziotti di Rio combattono quotidianamente in un contesto di guerra urbana, dove ogni strada può trasformarsi in un campo di battaglia e ogni abitante può essere usato come scudo umano dai narcotrafficanti. È facile, dalle comode scrivanie delle organizzazioni internazionali, o dalla scrivania del Presidente ipocrita Lula, invocare indagini e condanne, ma chi vive nel terrore quotidiano delle favelas sa che senza la forza dello Stato non esiste libertà, non esiste giustizia, non esiste pace.
L’azione di Rio non è solo un’operazione di polizia: è un segnale politico e morale. È la riaffermazione che la legalità non può arretrare davanti al crimine, che lo Stato federale deve essere più forte della paura e che la violenza dei narcos non può più essere tollerata in nome di un malinteso umanitarismo.
Gli agenti che hanno perso la vita in questa operazione sono martiri di un Paese che tenta di rialzarsi, uomini che hanno scelto di difendere i loro concittadini sapendo di poter morire in ogni istante. A loro va il rispetto che si deve a chi serve la giustizia sul fronte più duro.
Il Brasile non può più permettersi di essere ostaggio dei cartelli: o si riconquista metro per metro il controllo del territorio, o si condanna un’intera generazione a vivere sotto la legge del più forte. L’orrore vero non è quello di un blitz riuscito, ma quello di uno Stato che abdica al proprio dovere. Rio de Janeiro, oggi, brucia — ma forse, per la prima volta da molti anni, brucia la violenza del male sotto l’assalto della giustizia.

Se si pensa di combattere i narcos con le armi è solo perchè continuino a esistere. Cominciamo con distruggere le piantagioni, offrire ai contadini un reddito per sostituire la droga, controllare nelle banche i flussi di denaro e un buon 80% si potrebbe dire concluso. Pero’ bisognerebbe avvisare Americani ed Europei che non c’è piu’ nulla da sniffare e allora voglio vedere cosa accadrebbe. Il traffico della droga esiste solo perchè è controllato dagli Stati e da organizzazioni internazionali di cui esiste una vasta letteratura. P.s. Nelle favelas di Rio ci sono oltre 2 milioni di persone. 81 arresti? Nuts