Il 12 ottobre 1946, l’Italia repubblicana — nata dalle ceneri della monarchia e del Regno cattolico d’un tempo — adottava, come inno nazionale provvisorio, il Canto degli Italiani di Goffredo Mameli. In quel gesto apparentemente innocuo si nascondeva, in realtà, un simbolo potente: l’affermazione definitiva dell’ideologia risorgimentale e massonica sull’anima cattolica della nazione. Mentre il popolo, stremato dalla guerra, cercava un segno di unità e di speranza, gli architetti della nuova Italia scelsero come voce del Paese un canto che celebra l’uomo al posto di Dio, la patria al posto della Chiesa, la ribellione al posto dell’obbedienza.
Il giovane Mameli, fervente discepolo di Giuseppe Mazzini, compose il suo inno nel 1847, in un clima di esaltazione patriottica e di febbre rivoluzionaria. Il Risorgimento non fu, come spesso si insegna, un moto spontaneo di popolo per la libertà, ma il frutto di un disegno ideologico e anticristiano, condotto da logge massoniche e società segrete decise a sradicare il potere temporale del Papa e a instaurare un nuovo ordine laico, repubblicano, secolarizzato. Il Canto degli Italiani nasce dunque in quel contesto: è il canto della Rivoluzione, non della Fede. È la voce dell’Italia massonica e anticattolica che si ribella alla Roma dei Papi per erigere la Roma dei popoli.
L’inizio stesso dell’inno — “Fratelli d’Italia” — rivela la sua radice ideologica. Il termine “fratelli”, tanto caro alle logge massoniche, designa una fratellanza puramente umana, orizzontale, chiusa al trascendente. Non si tratta dei “fratelli in Cristo”, uniti nella grazia del Battesimo, ma di uomini che si autoproclamano fratelli per un vincolo di sangue, di terra o di ideologia. Dio non è nominato, né invocato. Al suo posto troviamo Roma, la spada, la catena, il giuramento, la vittoria. Tutti simboli di una religione terrestre che sostituisce la Croce con il vessillo tricolore, la liturgia con il rito patriottico, la grazia con l’orgoglio nazionale.
È il linguaggio del naturalismo massonico, che riduce la salvezza alla conquista politica e la redenzione alla liberazione temporale.
Questo inno, tanto acclamato come simbolo di unità, è in realtà il manifesto di un’Italia senza Cristo. Non una parola per Dio, non un accenno alla Vergine, non un respiro di fede. L’Italia di Mameli non è la “figlia primogenita della Chiesa”, ma una nazione autosufficiente, che si illude di bastare a se stessa. È l’Italia che ha rinnegato la civiltà cristiana costruita nei secoli da santi, papi, monaci e missionari; l’Italia che si vergogna della sua anima cattolica e che preferisce cantare la gloria delle armi piuttosto che quella della Croce. La “speme della vittoria” che l’inno celebra non è la speranza teologale, virtù che guarda al Cielo, ma la speranza umana della vittoria terrena: una fede rovesciata, senza Dio e senza Grazia.
Quando, nel 1946, la nuova Repubblica adottò questo canto, lo fece come atto di continuità con il Risorgimento. L’Italia nata dal referendum del 2 giugno non volle riconciliarsi con la propria storia cristiana, ma volle proseguire il cammino tracciato dai rivoluzionari del 1848: quello di uno Stato neutrale, laico, modernista, indifferente alla Verità rivelata. Non è dunque un caso che l’inno risorgimentale sia diventato l’inno della Repubblica: entrambi condividono la stessa matrice ideologica, la stessa ribellione all’ordine cattolico e la stessa pretesa di fondare la nazione senza riferimento a Dio.
I Papi del XIX secolo compresero bene la portata di questa ideologia. Gregorio XVI, nell’enciclica Mirari vos (1832), condannò l’“insana libertà” che voleva sciogliere la società dal giogo di Cristo. Pio IX, con il Sillabo (1864), denunciò le “pestifere dottrine” del liberalismo e del nazionalismo che pretendevano di emancipare l’uomo dalla Chiesa. Per questo, durante tutto il Risorgimento, i Papi scomunicarono i promotori dell’unificazione anticlericale e si opposero fermamente a quell’unità costruita contro Dio. È dunque paradossale che l’Italia cattolica del XX secolo abbia adottato come proprio inno una composizione che esalta proprio ciò che la Chiesa aveva condannato con autorità infallibile.
L’Italia non potrà mai ritrovare la sua vera unità finché continuerà a cantare un inno che celebra la ribellione invece dell’obbedienza, la forza invece della grazia, l’orgoglio umano invece della Croce.
Un popolo veramente cattolico non si riconosce nelle parole di Mameli, ma nella preghiera e nella lode a Dio che hanno formato la sua storia: nel Te Deum, nel Salve Regina, nel Veni Creator Spiritus.
Solo quando l’Italia tornerà a cantare la sua fede, potrà dirsi veramente libera. Non libera dalla Chiesa, ma libera nel Cuore di Cristo Re, sotto lo sguardo di Maria, Regina d’Italia.
Il Canto degli Italiani non è soltanto un simbolo patriottico, ma una professione di fede laica che, per chi guarda con occhio cattolico tradizionale, rappresenta una ferita nell’anima della nazione. Finché l’Italia non avrà il coraggio di riconoscere che la sua grandezza non nacque a Roma con i legionari, ma a Betlemme con il Bambino Dio, continuerà a celebrare la Rivoluzione anziché la Redenzione. E finché non tornerà a proclamare Cristo suo Re, l’Italia resterà orfana della sua vera identità: quella di nazione cattolica, apostolica e romana.
