Il 29 ottobre 1975, in una strada del quartiere Prenestino di Roma, il diciottenne Mario Zicchieri fu colpito a morte da un commando armato mentre usciva dalla sede del Fronte della Gioventù. La sua vita, appena agli inizi, si spense in un lampo di violenza cieca, una tra le tante che insanguinarono l’Italia degli anni Settanta. La storia di Mario, come quella di molti altri giovani che scelsero di militare nel campo della destra, è parte di una memoria civile troppo spesso dimenticata o raccontata a metà. Erano ragazzi, spesso poco più che adolescenti, cresciuti in un Paese lacerato da una guerra ideologica che trasformava le strade in campi di battaglia, i marciapiedi in linee del fronte, le sedi politiche in obiettivi militari. Molti di loro pagarono con la vita la semplice appartenenza, l’essere “dalla parte sbagliata”, in un tempo in cui sbagliare parte poteva significare morire.
Zicchieri, Mazzola, Mantakas, Bigonzetti, Ciavatta, Ramelli, Cecchin, Di Nella: nomi che formano un elenco tragicamente lungo e ancora doloroso. Giovani di destra uccisi da militanti di sinistra extraparlamentare, vittime di un odio che non lasciava spazio alla pietà né alla comprensione. Le loro morti non ebbero lo stesso clamore mediatico di altre, non suscitarono le stesse condanne, non ricevettero la stessa attenzione istituzionale. In molti casi, furono trattate come episodi marginali, come “incidenti” nella grande narrazione di un decennio in cui la violenza sembrava avere un solo volto, quello dell’eversione nera. Eppure la storia, con il tempo, ha restituito una verità più complessa e dolorosa: quella di un Paese in cui la violenza politica fu bilaterale, in cui giovani di entrambe le sponde persero la vita, e in cui la giustizia e la memoria non furono distribuite in modo equo.
Quel doppiopesismo, quell’asimmetria nel racconto e nel ricordo, è forse una delle ferite più profonde lasciate da quegli anni. Mentre alcuni martiri venivano celebrati, altri venivano ignorati o ridotti a note a piè di pagina, quasi che il loro sangue valesse meno per la loro idea. Eppure, in un Paese che voglia davvero dirsi riconciliato, ogni vittima dovrebbe avere lo stesso rispetto, ogni giovane assassinato lo stesso diritto a essere ricordato. La violenza politica, da qualunque parte provenga, è sempre una sconfitta della ragione e della libertà.
Ricordare Mario Zicchieri significa anche interrogarsi su come l’Italia abbia gestito la propria memoria collettiva. Gli anni di piombo non furono solo una guerra tra estremismi: furono anche un fallimento culturale, un cortocircuito morale che coinvolse partiti, stampa, istituzioni e intellettuali. In troppi preferirono il silenzio, in troppi si rifugiarono in una comoda cecità selettiva. Si parlò delle vittime “nostre” e si dimenticarono le vittime “loro”, come se il dolore potesse avere un colore politico.
Oggi, a distanza di mezzo secolo, il ricordo di quei ragazzi deve tornare a essere patrimonio comune. Non per riaprire ferite, ma per chiuderle davvero. Non per dividere, ma per unire nella consapevolezza che ogni vita spezzata dalla violenza politica rappresenta una sconfitta per la democrazia. Mario Zicchieri e tutti gli altri giovani caduti meritano di essere ricordati con lo stesso rispetto con cui si ricordano le vittime di ogni altra parte, perché solo così la memoria diventa giustizia e non più vendetta, e solo così la Storia può tornare a essere maestra e non prigioniera dei suoi fantasmi.

Il ricordo non cancella la sete di Giustizia che, come per le vittime di Bologna e tante altre, resta insoddisfatta. Celare la Verità significa mantenere la vulgata comunista del”fascismo” come fonte della violenza quando, in realtà, chi era a Destra, doveva difendersi dall’orda rossa, poi pacificamente confluita nei migliori posti del Potere. Una pagina di Storia non conclusa che ha come mandante lo Stato che si è costruito e sostenuto sulla pelle di chi veniva ammazzato. Non si puo’ mai parlare di pacificazione senza Giustizia. Troppo comodo.