Il 1º novembre 1993 entrava in vigore il Trattato di Maastricht, un atto che avrebbe dovuto rappresentare l’inizio di una nuova era di cooperazione e prosperità per i popoli europei, ma che col tempo si è rivelato un vincolo soffocante, una gabbia dorata dentro la quale le sovranità nazionali sono state lentamente disgregate.
Quel trattato, che sanciva la nascita dell’Unione Europea e poneva le basi della moneta unica, fu presentato come il trionfo della pace e dell’unità continentale, ma in realtà segnò l’avvio di un processo di centralizzazione tecnocratica che ha svuotato la democrazia degli Stati, subordinandola ai mercati, ai burocrati di Bruxelles e ai dogmi dell’austerità.
Il prezzo di quell’illusione di unità è stato altissimo: l’euro, nato come simbolo di coesione, si è trasformato in un meccanismo di disuguaglianza permanente, che ha favorito i Paesi più forti e impoverito quelli più deboli. Le economie mediterranee, un tempo vivaci, si sono trovate schiacciate dai parametri di bilancio imposti da Maastricht e dal Patto di stabilità, che hanno costretto intere nazioni a tagliare spesa pubblica, welfare, pensioni e investimenti, in nome di un equilibrio contabile che ha distrutto l’occupazione e la coesione sociale.
I popoli europei non hanno mai realmente scelto di rinunciare alla propria moneta e alla propria politica economica: sono stati convinti, anzi spesso ingannati, con la promessa di una ricchezza condivisa che non si è mai realizzata. L’Unione Europea, nata come un sogno di solidarietà, è diventata un sistema di vincoli, di regole imposte dall’alto, di decisioni prese da organismi non eletti che nessuno può davvero controllare. Le crisi degli ultimi decenni – quella finanziaria del 2008, la tragedia della Grecia, la pandemia, le tensioni energetiche – hanno mostrato in tutta la loro crudezza la fragilità di un’unione costruita su basi esclusivamente monetarie, senza un’anima politica comune, senza una vera solidarietà tra i popoli.
Il mercato unico e l’euro hanno favorito le grandi multinazionali e le potenze esportatrici, ma hanno distrutto il tessuto produttivo delle piccole e medie imprese locali, cancellando identità economiche secolari in nome di una competitività globale che ha solo aumentato la precarietà e la disuguaglianza. Maastricht ha trasformato la politica in amministrazione, l’ideale in burocrazia, e i governi nazionali in esecutori di direttive decise altrove.
Ogni volta che un popolo europeo ha tentato di ribellarsi – con un referendum, con un voto contrario, con una protesta sociale – è stato accusato di “antieuropeismo”, come se difendere la propria sovranità fosse un crimine contro il progresso. Ma l’Europa non è questa Unione senz’anima, non è il Parlamento di Strasburgo né la Commissione di Bruxelles: l’Europa è fatta di nazioni, di culture, di lingue, di popoli liberi che hanno dato al mondo civiltà e pensiero.
Oggi i cittadini europei vivono in un’Unione che decide per loro, ma senza di loro, e che parla di diritti mentre cancella il diritto fondamentale di autodeterminarsi. Il Trattato di Maastricht ha creato un gigante economico e un nano politico, un colosso burocratico privo di visione, incapace di affrontare le sfide globali se non con la retorica e i vincoli.
E così, mentre Bruxelles discute di parametri e di debiti, le periferie dell’Europa si spopolano, i giovani emigrano, le famiglie si impoveriscono e la democrazia si svuota. Forse è tempo di ammettere che quel sogno europeo è diventato un incubo tecnocratico: un’Europa che non unisce, ma divide; che non difende, ma impone; che non protegge, ma controlla. Riconoscere gli errori di Maastricht non significa rinnegare l’idea di Europa, ma liberarla dal giogo di un sistema che ha tradito le promesse fatte trent’anni fa. Perché l’Europa dei popoli potrà rinascere solo quando tornerà ad essere l’Europa delle nazioni sovrane, libere di cooperare, ma non costrette a obbedire.
