Le parole del primo ministro Benjamin Netanyahu, secondo cui la guerra con Hamas terminerà soltanto dopo il completamento della seconda fase dell’accordo di cessate il fuoco — quella che prevede il disarmo dell’organizzazione e la smilitarizzazione della Striscia di Gaza — riflettono la ferma determinazione di Israele a garantire finalmente la propria sicurezza e a porre fine a decenni di minacce provenienti dal sud.
Dopo anni di attacchi missilistici, rapimenti e attentati, Israele non può più permettersi di tollerare la presenza di un’entità armata e ostile ai propri confini, capace di seminare terrore tra i civili e di trasformare Gaza in una base militare permanente contro lo Stato ebraico.
Netanyahu interpreta dunque la seconda fase del cessate il fuoco non come una mera formalità diplomatica, ma come il cuore stesso della pace futura: una pace fondata sul disarmo del nemico, sulla restituzione della sicurezza alle città israeliane e sulla possibilità di una normalità che da troppo tempo è negata ai cittadini del Paese.
Disarmare Hamas non è per Israele un atto di vendetta, ma una necessità vitale: senza la confisca delle armi, senza la fine del potere militare di un’organizzazione che rifiuta l’esistenza stessa di Israele, ogni tregua sarebbe solo una pausa tra due guerre.
Per questo, il premier ribadisce che la fine del conflitto dipenderà dal successo di questa missione, che egli spera avvenga nel modo più semplice e diplomatico possibile, ma che, se necessario, sarà portata a termine con la forza.
L’obiettivo è chiaro: impedire che Gaza torni a essere un arsenale e trasformarla in un territorio capace di vivere senza la minaccia costante delle milizie armate. Israele sa che questa transizione non sarà indolore e che la comunità internazionale guarderà con attenzione ogni passo del processo, ma è convinto che solo una Gaza smilitarizzata potrà aprire la strada a un futuro diverso, in cui la popolazione palestinese possa concentrarsi sulla ricostruzione e sul benessere, anziché essere tenuta in ostaggio da un regime di terrore.
Le parole di Netanyahu rappresentano dunque una promessa e una visione: quella di un Israele che non vuole la guerra, ma che non accetterà mai una pace illusoria, una pace che lasci spazio alla rinascita del terrorismo e alla minaccia costante contro i suoi cittadini.
Per Tel Aviv, la fine della guerra non è solo la cessazione delle ostilità, ma la garanzia concreta che nessuna famiglia israeliana debba più correre nei rifugi a ogni sirena, che nessun bambino cresca sotto l’ombra dei razzi, che il diritto alla sicurezza diventi una realtà permanente e non una speranza fragile.
La smilitarizzazione di Gaza, per Israele, non è dunque un’imposizione, ma il presupposto necessario per un futuro di stabilità. E se questo processo dovrà attraversare momenti difficili, il popolo israeliano sembra determinato a sostenerlo fino in fondo, consapevole che solo così la guerra potrà davvero finire, non per stanchezza o compromesso, ma per vittoria della pace attraverso la forza della difesa e della legittima sicurezza nazionale.
