Alle ore 10.00 di ieri mattina, XXX Domenica del Tempo Ordinario, il Santo Padre Leone XIV, nella Basilica di San Pietro, ha presieduto la Santa Messa in occasione del Giubileo delle Équipe Sinodali e organi di partecipazione.
Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Papa ha pronunciato dopo la proclamazione del Vangelo:
Celebrando il Giubileo delle équipe sinodali e degli organi di partecipazione, siamo invitati a contemplare e a riscoprire il mistero della Chiesa, che non è una semplice istituzione religiosa né si identifica con le gerarchie e con le sue strutture. La Chiesa, invece, come ci ha ricordato il Concilio Vaticano II, è il segno visibile dell’unione tra Dio e l’umanità, del suo progetto di radunarci tutti in un’unica famiglia di fratelli e sorelle e di farci diventare suo popolo: un popolo di figli amati, tutti legati nell’unico abbraccio del suo amore.
Guardando al mistero della comunione ecclesiale, generata e custodita dallo Spirito Santo, possiamo comprendere anche il significato delle équipe sinodali e degli organi di partecipazione; essi esprimono quanto accade nella Chiesa, dove le relazioni non rispondono alle logiche del potere ma a quelle dell’amore. Le prime – per ricordare un monito costante di Papa Francesco – sono logiche “mondane”, mentre nella Comunità cristiana il primato riguarda la vita spirituale, che ci fa scoprire di essere tutti figli di Dio, fratelli tra di noi, chiamati a servirci gli uni gli altri.
Regola suprema, nella Chiesa, è l’amore: nessuno è chiamato a comandare, tutti sono chiamati a servire; nessuno deve imporre le proprie idee, tutti dobbiamo reciprocamente ascoltarci; nessuno è escluso, tutti siamo chiamati a partecipare; nessuno possiede la verità tutta intera, tutti dobbiamo umilmente cercarla, e cercarla insieme.
Proprio la parola “insieme” esprime la chiamata alla comunione nella Chiesa. Papa Francesco ce lo ha ricordato anche nel suo ultimo Messaggio per la Quaresima: «Camminare insieme, essere sinodali, questa è la vocazione della Chiesa. I cristiani sono chiamati a fare strada insieme, mai come viaggiatori solitari. Lo Spirito Santo ci spinge ad uscire da noi stessi per andare verso Dio e verso i fratelli, e mai a chiuderci in noi stessi. Camminare insieme significa essere tessitori di unità, a partire dalla comune dignità di figli di Dio» (Francesco, Messaggio per la Quaresima, 6 febbraio 2025).
Camminare insieme. Apparentemente è quello che fanno i due personaggi della parabola che abbiamo appena ascoltato nel Vangelo. Il fariseo e il pubblicano salgono tutti e due al Tempio a pregare, potremmo dire che “salgono insieme” o comunque si ritrovano insieme nel luogo sacro; eppure, essi sono divisi e tra loro non c’è nessuna comunicazione. Tutti e due fanno la stessa strada, ma il loro non è un camminare insieme; tutti e due si trovano nel Tempio, ma uno si prende il primo posto e l’altro rimane all’ultimo; tutti e due pregano il Padre, ma senza essere fratelli e senza condividere nulla.
Ciò dipende soprattutto dall’atteggiamento del fariseo. La sua preghiera, apparentemente rivolta a Dio, è soltanto uno specchio in cui egli guarda sé stesso, giustifica sé stesso, elogia sé stesso. Egli «era salito per pregare; ma non volle pregare Dio, bensì lodare sé stesso» (Agostino, Discorso 115,2), sentendosi migliore dell’altro, giudicandolo con disprezzo e guardandolo dall’alto in basso. È ossessionato dal proprio io e, in tal modo, finisce per ruotare intorno a sé stesso senza avere una relazione né con Dio e né con gli altri.
Fratelli e sorelle, questo può succedere anche nella Comunità cristiana. Succede quando l’io prevale sul noi, generando personalismi che impediscono relazioni autentiche e fraterne; quando la pretesa di essere migliori degli altri, come fa il fariseo col pubblicano, crea divisione e trasforma la Comunità in un luogo giudicante ed escludente; quando si fa leva sul proprio ruolo per esercitare il potere e occupare spazi.
È al pubblicano, invece, che dobbiamo guardare. Con la sua stessa umiltà, anche nella Chiesa dobbiamo tutti riconoscerci bisognosi di Dio e bisognosi gli uni degli altri, esercitandoci nell’amore vicendevole, nell’ascolto reciproco, nella gioia del camminare insieme, sapendo che «il Cristo appartiene a coloro che sentono umilmente, non a coloro che si innalzano al di sopra del gregge» (San Clemente Romano, Lettera ai Corinti, c. XVI).
Le équipe sinodali e gli organi di partecipazione sono immagine di questa Chiesa che vive nella comunione. E oggi vorrei esortarvi: nell’ascolto dello Spirito, nel dialogo, nella fraternità e nella parresìa, aiutateci a comprendere che, nella Chiesa, prima di qualsiasi differenza, siamo chiamati a camminare insieme alla ricerca di Dio, per rivestirci dei sentimenti di Cristo; aiutateci ad allargare lo spazio ecclesiale perché esso diventi collegiale e accogliente.
Questo ci aiuterà ad abitare con fiducia e con spirito nuovo le tensioni che attraversano la vita della Chiesa – tra unità e diversità, tradizione e novità, autorità e partecipazione –, lasciando che lo Spirito le trasformi, perché non diventino contrapposizioni ideologiche e polarizzazioni dannose. Non si tratta di risolverle riducendo l’una all’altra, ma di lasciarle fecondare dallo Spirito, perché siano armonizzate e orientate verso un discernimento comune. Come équipe sinodali e membri degli organismi di partecipazione sapete infatti che il discernimento ecclesiale richiede «libertà interiore, umiltà, preghiera, fiducia reciproca, apertura alle novità e abbandono alla volontà di Dio. Non è mai l’affermazione di un punto di vista personale o di gruppo, né si risolve nella semplice somma di pareri individuali» (Documento finale, 26 ottobre 2024, n. 82). Essere Chiesa sinodale significa riconoscere che la verità non si possiede, ma si cerca insieme, lasciandosi guidare da un cuore inquieto e innamorato dell’Amore.
Carissimi, dobbiamo sognare e costruire una Chiesa umile. Una Chiesa che non sta dritta in piedi come il fariseo, trionfante e gonfia di sé stessa, ma si abbassa per lavare i piedi dell’umanità; una Chiesa che non giudica come fa il fariseo col pubblicano, ma si fa luogo ospitale per tutti e per ciascuno; una Chiesa che non si chiude in sé stessa, ma resta in ascolto di Dio per poter allo stesso modo ascoltare tutti. Impegniamoci a costruire una Chiesa tutta sinodale, tutta ministeriale, tutta attratta da Cristo e perciò protesa al servizio del mondo.
Su di voi, su noi tutti, sulla Chiesa sparsa nel mondo, invoco l’intercessione della Vergine Maria con le parole del Servo di Dio don Tonino Bello: «Santa Maria, donna conviviale, alimenta nelle nostre Chiese lo spasimo di comunione. […] Aiutale a superare le divisioni interne. Intervieni quando nel loro grembo serpeggia il demone della discordia. Spegni i focolai delle fazioni. Ricomponi le reciproche contese. Stempera le loro rivalità. Fermale quando decidono di mettersi in proprio, trascurando la convergenza su progetti comuni» (Maria, Donna dei nostri giorni, Cinisello Balsamo 1993, 99).
Ci conceda il Signore questa grazia: essere radicati nell’amore di Dio per vivere in comunione tra di noi. Ed essere, come Chiesa, testimoni di unità e di amore.
Alle ore 12 di ieri, XXX Domenica del Tempo Ordinario, il Santo Padre Leone XIV si è affacciato alla finestra dello studio, nel Palazzo Apostolico Vaticano, per recitare l’Angelus con i fedeli ed i pellegrini convenuti in Piazza San Pietro.
Pubblichiamo di seguito le parole del Papa nell’introdurre la preghiera mariana:
Oggi il Vangelo (cfr Lc 18,9-14) ci presenta due personaggi, un fariseo e un pubblicano, che pregano nel Tempio.
Il primo vanta un lungo elenco di meriti. Le opere buone che compie sono molte, e per questo si sente migliore degli altri, che giudica in modo sprezzante. Sta in piedi, a testa alta. Il suo atteggiamento è chiaramente presuntuoso: denota un’osservanza della Legge esatta, sì, ma povera d’amore, fatta di “dare” e di “avere”, di debiti e crediti, priva di misericordia.
Anche il pubblicano sta pregando, ma in modo molto diverso. Ha tanto da farsi perdonare: è un esattore al soldo dell’Impero romano, e lavora con un contratto di appalto che gli permette di speculare sui proventi a scapito dei suoi stessi connazionali. Eppure, alla fine della parabola, Gesù ci dice che proprio lui, tra i due, è quello che torna a casa “giustificato”, cioè perdonato e rinnovato dall’incontro con Dio. Perché?
Anzitutto, il pubblicano ha il coraggio e l’umiltà di presentarsi davanti a Dio. Non si chiude nel suo mondo, non si rassegna al male che ha fatto. Lascia i luoghi in cui è temuto, al sicuro, protetto dal potere che esercita sugli altri. Viene al Tempio da solo, senza scorta, anche a costo di affrontare sguardi duri e giudizi taglienti, e si mette davanti al Signore, in fondo, a testa bassa, pronunciando poche parole: «O Dio, abbi pietà di me peccatore» (v. 13).
Così Gesù ci dà un messaggio potente: non è ostentando i propri meriti che ci si salva, né nascondendo i propri errori, ma presentandosi onestamente, così come siamo, davanti a Dio, a sé stessi e agli altri, chiedendo perdono e affidandosi alla grazia del Signore.
Commentando questo episodio, Sant’Agostino paragona il fariseo a un malato che, per vergogna e orgoglio, nasconde al medico le sue piaghe, e il pubblicano a un altro che, con umiltà e saggezza, mette a nudo davanti al dottore le proprie ferite, per quanto brutte a vedersi, chiedendo aiuto. E conclude: «Non ci stupisce […] se quel pubblicano, che non ebbe vergogna a mostrare la sua parte malata, se ne tornò […] guarito» (Sermo 351,1).
Cari fratelli e sorelle, facciamo così anche noi. Non abbiamo paura di riconoscere i nostri errori, di metterli a nudo assumendocene la responsabilità e affidandoli alla misericordia di Dio. Potrà così crescere, in noi e attorno a noi, il suo Regno, che non appartiene ai superbi, ma agli umili, e che si coltiva, nella preghiera e nella vita, attraverso l’onestà, il perdono e la gratitudine.
Chiediamo a Maria, modello di santità, che ci aiuti a crescere in queste virtù.
Dopo l’Angelus
Sono vicino con affetto alle popolazioni del Messico orientale, colpite nei giorni scorsi dall’alluvione. Prego per le famiglie e per tutti coloro che soffrono a causa di questa calamità, e affido al Signore, per intercessione della Vergine Santa, le anime dei defunti.
Prosegue incessante la nostra preghiera per la pace, particolarmente mediante la recita comunitaria del santo Rosario. Contemplando i misteri di Cristo insieme con la Vergine Maria, facciamo nostra la sofferenza e la speranza dei bambini, delle madri, dei padri, degli anziani vittime delle guerre… E da questa intercessione del cuore nascono tanti gesti di carità evangelica, di vicinanza concreta, di solidarietà… A tutti coloro che, ogni giorno, con fiduciosa perseveranza, portano avanti questo impegno, ripeto: “Beati gli operatori di pace”!
Saluto tutti voi, romani e pellegrini provenienti dall’Italia e da tante parti del mondo, in particolare quelli di Logroño, in Spagna, San Pedro del Paraguay, Recreio (Brasile) e i cubani residenti in Europa.
Saluto inoltre i fedeli di Ginosa, Genova, Corato, Fornovo San Giovanni, Milano, San Giovanni Ilarione, Porto Legnago, i ragazzi di Scicli, i cresimandi della Diocesi di Saluzzo, le Suore Riparatrici del Sacro Cuore che celebrano 150 anni di fondazione, il gruppo di Comunione e Liberazione di Pavia e la Corale Polifonica di Milazzo.
Ieri pomeriggio, nella Basilica Vaticana, il Santo Padre ha presieduto la Celebrazione Eucaristica con il Rito di Ordinazione Episcopale di S.E. Mons. Mirosław Stanisław Wachowski, Arcivescovo titolare eletto di Villamagna di Proconsolare e Nunzio Apostolico in Iraq.
Pubblichiamo di seguito l’omelia del Santo Padre:
Oggi la Chiesa di Roma gioisce insieme con la Chiesa universale, esultando per il dono di un nuovo Vescovo: Mons. Mirosław Stanisław Wachowski, figlio della terra polacca, Arcivescovo titolare eletto di Villamagna di Proconsolare e Nunzio Apostolico presso il caro popolo dell’Iraq.
Il motto da lui scelto – Gloria Deo Pax Hominibus – risuona come eco del canto natalizio degli angeli a Betlemme: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama» (Lc 2,14). È il programma di una vita: cercare sempre che la gloria di Dio risplenda nella pace tra gli uomini. Questo è il senso profondo di ogni vocazione cristiana, e in modo particolare di quella episcopale: rendere visibile, con la propria vita, la lode di Dio e il suo desiderio di riconciliare il mondo a sé (cfr 2Cor 5,19).
La Parola di Dio appena proclamata ci offre alcuni tratti essenziali del ministero episcopale. Il Vangelo (Lc 18,9-14) ci mostra due uomini che pregano al tempio: un fariseo e un pubblicano. Il primo si presenta con sicurezza, elencando le proprie opere; il secondo rimane in fondo, senza osare alzare lo sguardo, e affida tutto a una sola invocazione: «O Dio, abbi pietà di me peccatore» (v. 13). Gesù dice che in realtà è lui, il pubblicano, a ricevere la grazia e la salvezza di Dio, perché «chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato» (v. 14).
La preghiera del povero attraversa le nubi, ci ricorda il Siracide: Dio ascolta la supplica di chi si affida totalmente a Lui (cfr Sir 35,15-22).
Questa è la prima lezione per ogni Vescovo: l’umiltà. Non l’umiltà delle parole, ma quella che abita il cuore di chi sa di essere servo, non padrone; pastore, non proprietario del gregge.
Mi commuove pensare alla preghiera umile che, in Mesopotamia, sale da secoli come incenso: il pubblicano del Vangelo ha il volto di tanti fedeli d’Oriente che, nel silenzio, continuano a dire: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». La loro preghiera non si spegne, e oggi la Chiesa universale si unisce a quel coro di fiducia che attraversa le nubi e tocca il cuore di Dio.
Caro Monsignor Mirosław, tu vieni da una terra di laghi e foreste. In quei paesaggi, dove il silenzio è maestro, hai imparato a contemplare; tra la neve e il sole, hai appreso la sobrietà e la forza; in una famiglia contadina, la fedeltà alla terra e al lavoro. Il mattino che inizia presto ti ha insegnato la disciplina del cuore, e l’amore per la natura ti ha fatto scoprire la bellezza del Creatore.
Queste radici non sono soltanto un ricordo da conservare, ma una scuola permanente. Dal contatto con la terra hai imparato che la fecondità nasce dall’attesa e dalla fedeltà: due parole che definiscono anche il ministero episcopale. Il Vescovo è chiamato a seminare con pazienza, a coltivare con rispetto, ad attendere con speranza. È custode, non proprietario; uomo di preghiera, non di possesso. Il Signore ti affida una missione perché tu la curi con la stessa dedizione con cui il contadino si prende cura del campo: ogni giorno, con costanza, con fede.
Allo stesso tempo, abbiamo ascoltato l’Apostolo Paolo che, guardando alla propria vita, dice: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (2Tm 4,7). La sua forza non nasce dall’orgoglio, ma dalla gratitudine, perché il Signore lo ha sostenuto nelle fatiche e nelle prove.
Così, anche tu, caro fratello, che hai percorso un cammino di servizio alla Chiesa nelle Rappresentanze Pontificie in Senegal e nella tua Polonia, presso le Organizzazioni Internazionali a Vienna e nella Segreteria di Stato, come Minutante e Sotto-Segretario per i Rapporti con gli Stati, hai vissuto la diplomazia come obbedienza alla verità del Vangelo, con discrezione e competenza, con rispetto e dedizione, e di questo ti sono grato. Ora il Signore chiede che tale dono diventi paternità pastorale: essere padre, pastore e testimone della speranza in una terra segnata dal dolore e dal desiderio di rinascita. Sei chiamato a combattere la buona battaglia della fede, non contro gli altri, ma contro la tentazione di stancarti, di chiuderti, di misurare i risultati, contando sulla fedeltà che è il tuo tratto distintivo: la fedeltà di chi non cerca sé stesso, ma serve con professionalità, con rispetto, con una competenza che illumina e non ostenta.
San Paolo VI, nella Lettera Apostolica Sollicitudo omnium Ecclesiarum, ricorda che il Rappresentante Pontificio è segno della sollecitudine del Successore di Pietro per tutte le Chiese. Egli è inviato per rafforzare i vincoli di comunione, per promuovere il dialogo con le Autorità civili, per custodire la libertà della Chiesa e favorire il bene dei popoli. Il Nunzio Apostolico non è un diplomatico qualunque: è il volto di una Chiesa che accompagna, consola, costruisce ponti. Il suo compito non è difendere interessi di parte, ma servire la comunione.
In Iraq, terra della tua missione, questo servizio assume un significato speciale. Lì, la Chiesa cattolica, in piena comunione con il Vescovo di Roma, vive in diverse tradizioni: la Chiesa caldea, con il suo Patriarca di Babilonia dei Caldei e la lingua aramaica della liturgia; le Chiese siro-cattolica, armeno-cattolica, greco-cattolica e latina. È un mosaico di riti e di culture, di storia e di fede, che chiede di essere accolto e custodito nella carità.
La presenza cristiana in Mesopotamia è antichissima: secondo la tradizione, fu san Tommaso apostolo, dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme, a portare il Vangelo in quella terra; e furono i suoi discepoli Addai e Mari a fondare le prime comunità. In quella regione si prega nella lingua che Gesù parlava: l’aramaico. Questa radice apostolica è segno di una continuità che la violenza, manifestatasi con ferocia negli ultimi decenni, non ha potuto spegnere. Anzi, la voce di quanti in quelle terre sono stati privati della vita in modo brutale non viene meno. Essi pregano oggi per te, per l’Iraq, per la pace del mondo.
Per la prima volta nella storia, poi, un Pontefice si è recato in Iraq. Nel marzo 2021, infatti, Papa Francesco vi è giunto come pellegrino di fraternità. In quella terra, dove Abramo, nostro padre nella fede, udì la chiamata di Dio, il mio Predecessore ha ricordato che «Dio, che ha creato gli esseri umani uguali nella dignità e nei diritti, ci chiama a diffondere amore, benevolenza, concordia. Anche in Iraq la Chiesa cattolica desidera essere amica di tutti e, attraverso il dialogo, collaborare in modo costruttivo con le altre religioni, per la causa della pace» (Francesco, Discorso ad Autorità, società civile e Corpo Diplomatico, 5 marzo 2021).
Oggi tu sei chiamato a proseguire quel cammino: a custodire i germogli della speranza, a incoraggiare la convivenza pacifica, a mostrare che la diplomazia della Santa Sede nasce dal Vangelo e si alimenta della preghiera.
Caro Monsignor Mirosław, sii sempre uomo di comunione e di silenzio, di ascolto e di dialogo. Porta nella tua parola la mitezza che edifica e nel tuo sguardo la pace che consola. In Iraq, il popolo ti riconoscerà non per ciò che dirai, ma per come amerai.
Affidiamo la tua missione a Maria, Regina della Pace, ai santi Tommaso, Addai e Mari, e ai molti testimoni della fede dell’Iraq. Essi ti accompagnino e siano luce sul tuo cammino.
E così, mentre la Chiesa, in preghiera, ti accoglie nel Collegio dei Vescovi, preghiamo insieme: che la gloria di Dio illumini il tuo cammino e che la pace di Cristo abiti dove tu porrai il tuo passo. Gloria Deo, Pax Hominibus. Amen.
