Il dieci ottobre 2015 rimane una data funesta nella storia della Repubblica Turca: l’attentato suicida ad Ankara contro un corteo per la pace promosso da curdi e sindacati, che fece centinaia di vittime.
Quel massacro fu uno dei momenti più drammatici della polarizzazione etnica, politica e religiosa che già da anni attraversava la Turchia. Oggi, a distanza di dieci anni, sembra che molte delle tensioni che emergono allora non siano state sanate, ma anzi siano mutate, evolute, forse aggravate.
I curdi in Turchia costituiscono una componente rilevante della popolazione (stime parlano di circa il 15-25 %), una minoranza con una storia lunga e complessa di rivendicazioni linguistiche, culturali e politiche.
Pur essendo parte dello Stato turco, una parte significativa della popolazione curda si è sentita per decenni marginalizzata per i seguenti motivi:
Lingua e cultura: le restrizioni sull’uso della lingua curda negli ambienti pubblici, nelle scuole, la difficoltà di avere formazione e media curdi; il desiderio di riconoscimento culturale e linguistico rimane forte.
Diritti civili e politici: esistono partiti curdi legittimi come l’HDP che cercano di operare attraverso la via democratica, ma che spesso incontrano repressione, accuse di legami con il PKK, arresti, pressioni giudiziarie e amministrative.
Violenza e sicurezza: il conflitto armato con il PKK è durato decenni, costando decine di migliaia di vite. Anche se ci sono stati momenti di cessate il fuoco, la sicurezza rimane precaria in molte aree, state di emergenza, coprifuoco, interventi militari che incidono pesantemente su popolazioni civili.
Nel corso degli ultimi due decenni, sotto il governo dell’AKP e con Erdogan al centro, la Turchia ha vissuto una trasformazione politica e sociale che molti osservatori descrivono come una progressiva “islamizzazione”.
Non si tratta solo di una retorica religiosa, ma di interventi concreti in strutture istituzionali, sistema educativo, simboli pubblici, diritti civili, che modificano il rapporto fra religione e Stato.
Alcuni aspetti significativi sono i seguenti:
Istruzione e curriculum scolastico: sono state introdotte materie religiose obbligatorie che favoriscono l’Islam sunnita; è stata ampliata la presenza di scuole islamiche; la revisione dei testi scolastici enfatizza i valori religiosi tradizionali, modificando in alcuni casi il contenuto laico in favore di una visione più islamica.
Ruolo dello Stato e istituzioni religiose: l’autorità turca per gli affari religiosi ha visto un rafforzamento del suo ruolo, con una sua maggiore presenza sociale e politica. L’uso pubblico della religione come elemento legittimante del potere esecutivo, la visibilità crescente di simboli religiosi, feste, cerimonie, l’apertura di nuove moschee, la mutazione dello status di Santa Sofia, sono esempi concreti.
Diritti civili e libertà religiose: le libertà per le minoranze religiose sono percepite come sempre più in bilico; gli Alevis, ad esempio, segnalano discriminazioni. Le comunità cristiane, che già contano poche decine di migliaia in una Turchia di decine di milioni, vivono sotto pressioni varie: difficoltà nel restauro dei luoghi di culto, restrizioni nell’istruzione, difficoltà burocratiche.
Politica interna, laicità e autorità: la laicità come principio dell’ordinamento repubblicano è stata ridefinita: non più come separazione netta fra religione e Stato, ma come una laicità “passiva” o come “laicità civile” dove lo Stato consente la religione ma la religione entra nello spazio pubblico e governa indirettamente pratiche e simboli. Studi recenti parlano di “stealth islamization”: un processo graduale, quasi invisibile, che trasforma l’assetto secolare, modifica i costi e benefici di chi si dichiara o non si dichiara religiosamente, favorisce le scelte confessionali.
Questi cambiamenti hanno effetti pratici forti sulla vita quotidiana: la pressione sociale su chi non vuole partecipare a pratiche religiose pubbliche, delle comunità non musulmane, su donne, su gruppi che chiedono libertà linguistiche, culturali.
Dal punto di vista cattolico ci sono alcuni valori che rischiano di essere compressi da simili trasformazioni:
La dignità dell’uomo e la libertà religiosa: la Chiesa insegna che ogni persona ha il diritto di conoscere la verità religiosa e di praticarla liberamente, senza coercizione. Quando lo Stato privilegia una religione o una confessione a scapito di altre, la libertà religiosa e la giustizia verso le minoranze possono essere compromesse.
La laicità dello Stato: non la laicità come assenza di religione, ma come garanzia che lo Stato rimanga neutrale, che sia giusto per tutti. Se la religione diventa strettamente legata al potere politico, si rischia che chi dissente o è diverso sia escluso, perseguitato, marginalizzato.
Il bene comune: il bene comune richiede la protezione dei deboli, delle minoranze, degli oppressi. Quando una comunità – come quella curda – subisce discriminazione o violenza, lo Stato non solo fallisce in un obbligo civile, ma anche in quello morale di proteggere tutti i suoi cittadini.
Perché il ricordo di tante tragedie turche non resti solo una ferita, ma diventi monito, occorre che vi siano passi concreti verso:
Riconoscimento dei diritti delle minoranze curde: lingua, cultura, rappresentanza politica; che le istituzioni garantiscano pari dignità.
Garanzia della libertà religiosa per tutti: comunità cristiane, yazide, alawite, e altri gruppi non musulmani, ma anche musulmani non conformi alla versione dominante.
Ripristino di una laicità autentica dello Stato: che lo Stato non usi la religione come strumento di legittimazione politica, ma la consideri parte della coscienza personale e comunitaria.
Spazio per la guarigione, la verità e la riconciliazione: verità sugli attentati, sulle responsabilità, sulle vittime; dialogo fra comunità; giustizia anche quando è difficile.
