Il 16 ottobre 1962 segna l’inizio di uno dei momenti più drammatici e pericolosi del XX secolo: la crisi dei missili di Cuba.
Quel giorno, il presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy viene informato delle immagini scattate due giorni prima da un aereo spia U-2, che mostrano inequivocabilmente la presenza di basi missilistiche sovietiche sull’isola di Cuba, a pochi minuti di volo dalle coste americane.
La scoperta scatena una tensione planetaria senza precedenti, proiettando il mondo sull’orlo dell’abisso nucleare. Per tredici lunghi giorni, dal 16 al 28 ottobre, la Terra vive sospesa tra la speranza e il terrore, mentre due potenze armate fino ai denti si fronteggiano in un duello politico, militare e psicologico che avrebbe potuto cancellare la civiltà umana in poche ore.
Kennedy e Krusciov, i protagonisti di quella partita mortale, si muovono su un filo sottilissimo, consapevoli che un solo errore, un malinteso, una parola di troppo, potrebbe significare l’inizio della fine. L’opinione pubblica mondiale segue con il fiato sospeso, le diplomazie lavorano febbrilmente, i generali premono per la reazione, i cittadini scavano rifugi antiatomici, mentre nei cieli del Caribe e negli oceani si muovono portaerei, sottomarini e bombardieri pronti al peggio. In quei giorni di paura e di silenzio, mentre il mondo attende un segnale di pace, una voce si alza dal cuore della cristianità: quella di Papa Giovanni XXIII.
Il Pontefice, che pochi mesi prima aveva inaugurato il Concilio Vaticano II, sente che la sua missione pastorale non può rimanere estranea al dramma dell’umanità sospesa sull’orlo della distruzione. Con parole di accorata saggezza, il 25 ottobre 1962 egli lancia un appello che attraversa i cuori dei potenti e dei popoli: “Supplichiamo tutti i governanti di non rimanere sordi al grido dell’umanità: salvate la pace!”
Quelle parole, pronunciate con la forza della fede e della carità universale, non sono un semplice gesto diplomatico, ma un atto profetico che restituisce all’uomo la coscienza del suo destino comune. L’appello del Papa giunge a Washington e a Mosca, viene trasmesso dai giornali e dalle radio di tutto il mondo, e molti storici riconosceranno in esso un momento decisivo nella distensione delle tensioni tra le due superpotenze.
Giovanni XXIII comprende che la pace non è un’utopia, ma un dovere morale, un imperativo della ragione e della fede, e il suo intervento spirituale prepara il terreno per l’enciclica “Pacem in terris”, che vedrà la luce pochi mesi dopo e resterà una pietra miliare del magistero sociale della Chiesa.
Quando il 28 ottobre la crisi si chiude, con il ritiro dei missili sovietici da Cuba e l’impegno americano a non invadere l’isola, il mondo tira un sospiro di sollievo. Ma nulla sarà più come prima: l’umanità ha visto in faccia il proprio annientamento e ha compreso che la guerra atomica non è una vittoria possibile per nessuno.
Kennedy e Krusciov, pur rimanendo avversari ideologici, si rendono conto che la sopravvivenza stessa del pianeta dipende dalla capacità di dialogo e di equilibrio. In questo scenario, la voce di Giovanni XXIII rimane come un faro nel buio della paura, la voce di un uomo di fede che ha saputo parlare al cuore dei potenti senza potere, ricordando che la pace nasce solo dove la coscienza dell’uomo riconosce nell’altro un fratello.
A sessant’anni di distanza, la crisi dei missili di Cuba rimane una lezione terribile e luminosa insieme: la prova che l’umanità può sfiorare l’autodistruzione, ma anche la dimostrazione che, finché esistono uomini di coraggio e di preghiera, la speranza non muore mai.
