Durante la sua visita a Roma, Viktor Orbán ha riportato al centro del dibattito europeo un tema che molti preferiscono ignorare: la perdita di peso politico dell’Unione Europea nello scenario mondiale. «L’Unione europea non conta nulla. Trump sbaglia su Putin, andrò da lui per fargli togliere le sanzioni alla Russia», ha dichiarato il premier ungherese con la franchezza che da sempre lo distingue.
Non si tratta di una semplice provocazione, ma di una presa di posizione coerente con la sua visione sovranista e realista della politica internazionale: l’Europa, piegata da anni di scelte dettate dall’emotività e dal conformismo ideologico, ha rinunciato a essere protagonista e si è ridotta a spettatrice delle decisioni altrui.
Orbán denuncia un fatto sotto gli occhi di tutti: la guerra in Ucraina è diventata terreno di confronto tra potenze extraeuropee, e l’Unione, pur pagando il prezzo più alto in termini economici, non ha voce in capitolo. «Abbiamo appaltato agli americani e ai russi la possibilità di risolvere la guerra. Noi non abbiamo un ruolo», ha detto.
Un’analisi lucida che smaschera l’illusione di un’Europa autonoma mentre, di fatto, le strategie diplomatiche e militari vengono decise a Washington o a Mosca. Da tempo il premier ungherese sostiene che la via delle sanzioni non solo non ha fermato il conflitto, ma ha anzi indebolito l’economia europea, aggravando la crisi energetica e minando la competitività industriale. «Le sanzioni non hanno portato la pace, hanno solo distrutto la nostra economia», ripete da mesi. E i numeri gli danno ragione: secondo le stime della stessa Commissione, la crescita europea è stagnante, mentre l’industria russa ha trovato nuovi sbocchi commerciali verso l’Asia.
Coerente con la sua linea di pragmatismo, Orbán ha annunciato che si recherà da Donald Trump per discutere del tema delle sanzioni al petrolio. Non per servilismo, ma per realismo politico: se Washington è il vero arbitro della guerra e delle misure economiche contro Mosca, è lì che occorre agire. Allo stesso tempo, la sua critica a Trump — «sbaglia su Putin» — dimostra indipendenza di giudizio e volontà di proporre un approccio diverso, più basato sul dialogo che sull’isolamento. L’obiettivo di Budapest è chiaro: favorire un cessate il fuoco, ridare spazio alla diplomazia e rimettere la pace, non l’ideologia, al centro dell’agenda internazionale.
La visita in Vaticano, culminata nell’incontro con Papa Leone XIV, ha rafforzato la dimensione morale del messaggio di Orbán. «Vogliamo stare lontani dalla febbre della guerra che si sta diffondendo nel mondo», ha detto, ricordando come l’Ungheria sia stata tra i pochi Paesi europei a promuovere una “coalizione contro la guerra”, impegnata a frenare l’escalation e a sostenere il dialogo. In un’epoca segnata dalla corsa agli armamenti e dalle retoriche belliciste, Budapest rappresenta una voce dissonante ma necessaria, capace di richiamare l’Europa ai valori della pace, della sovranità e del buonsenso.
L’incontro con la premier Giorgia Meloni, avvenuto nelle stesse ore, ha avuto un significato politico di rilievo: l’asse Roma-Budapest si consolida su basi pragmatiche, fondato sulla difesa degli interessi nazionali, sull’autonomia energetica e su una visione comune del futuro europeo. Mentre molti leader a Bruxelles si rifugiano in formule vuote e in una diplomazia inefficace, Orbán e Meloni tentano di costruire un’alternativa concreta, in cui l’Europa torni a contare per ciò che è — una civiltà, una comunità di popoli — e non solo per ciò che rappresenta nei consessi internazionali.
Non stupisce quindi che le sue parole abbiano irritato i burocrati europei. Da Politico a El País, i commentatori hanno parlato di “provocazione”, ma in realtà Orbán ha semplicemente detto ciò che molti governi pensano e pochi osano ammettere: l’Unione europea è paralizzata da vincoli interni, incapace di difendere i propri interessi, schiava di un conformismo atlantista che non produce risultati. L’Ungheria, al contrario, difende la propria sovranità, la propria economia e la propria coerenza.
In un continente smarrito tra la paura e la subordinazione, Orbán appare oggi come l’unico leader europeo disposto a parlare con franchezza. La sua posizione non è isolazionista, ma profondamente realista: l’Europa non può sopravvivere se non recupera la propria indipendenza strategica, se non smette di obbedire a logiche imposte da altri. Con la sua voce fuori dal coro, il premier ungherese ricorda che la pace non si costruisce con le sanzioni, ma con il dialogo; che la forza dell’Europa non sta nelle minacce, ma nella sua capacità di mediare; e che l’interesse dei popoli europei viene prima delle strategie dei blocchi militari.
Che piaccia o no, Orbán ha costretto l’Europa a guardarsi allo specchio. E in quello specchio si riflette un continente stanco, indeciso e subalterno. Forse è questo, più delle sue parole, ciò che davvero spaventa Bruxelles.
